Credeva nella forza trasformatrice del Vangelo. Ma
solo se la fedeltá a Cristo passasse per la fedeltá ai poveri. Li considerava
un “luogo biblico”, perché il Dio della vita ascolta il loro grido di
liberazione, come una parola sacra.
Insisteva che oltre a dare un pesce ed insegnare a
pescare, occorre “ripulire il fiume”, inquinato dall’ingiustizia sociale.
Dieci anni fa, il 17 settembre 2006, moriva in
Brasile per un tragico incidente di bicicletta dom Franco Masserdoti,
missionario comboniano, vescovo di Balsas, nello stato del Maranhão.
“Franco riusciva ad essere allo stesso tempo
vescovo e fratello”, ricorda dom Pedro Casaldaliga, altro grande maestro di
vita per la chiesa brasiliana. “Si trovava bene con tutti, ma specialmente con
gli inquieti ed i sognatori”.
Cominció presto a sognare e, una volta prete,
ricucí i suoi sogni attorno a visioni di una nuova societá. Studió sociologia a
Trento negli anni ‘60. Lá, commenta il giornalista Giorgio Bocca, “come se
fosse suonato un misterioso tam-tam, tutti gli avventurosi, gli utopisti, gli
spostati, gli irrequieti della penisola si sono dati appuntamento”.
Dopo un primo assaggio di missione inserita, otto
anni in Brasile, gli fu affidato il compito di accompagnare ed orientare la
congregazione comboniana, prima come consigliero generale a Roma, e poi come
coordinatore provinciale in Brasile.
Creativo e coinvolgente, aprí per i comboniani e
la chiesa locale nuove porte nel campo dell’animazione missionaria e della
missione itinerante, della formazione popolare e politica, della comunicazione,
della pastorale e teologia indigena…
Durante le celebrazioni dei 500 anni della
“scoperta” del Brasile, nel 2000, i popoli indigeni organizzarono una grande
conferenza a Porto Seguro, nello stato della Bahia, luogo del primo sbarco
degli invasori portoghesi.
Quattromila indigeni, in marcia pacifica, furono
attaccati barbaramente dalla polizia, che voleva disperderli prima che
rovinassero le celebrazioni ufficiali. Dom Franco, in qualitá di presidente del
Consiglio Indigenista Missionario della Conferenza Episcopale Brasiliana, tentó
mediare il conflitto e finí per essere anch’egli arrestato, per cinque ore.
Sono passati piú di quindici anni, ma ancora oggi
le aggressioni ai popoli indigeni ricalcano la logica coloniale di cinque
secoli fa.
In giugno di quest’anno, un numeroso grupo di
indigeni Guarani-Kaiowá dello stato di Mato Grosso do Sul rivendicavano alcune
terre ancestrali in cui si trovavano accampati.
Un gruppo di persone armate
(esistono forti indizi che si tratti di paramilitari contrattati dai fazendeiros
locali) li circondarono ed iniziarono a sparare, uccidendo un giovane di 26
anni e ferendo altre 6 persone, tra cui un bambino di 12 anni. Un mese dopo,
nella stessa regione, un attacco simile ferí 3 persone dello stesso gruppo
indigeno; uno di loro si trova in stato grave.
I movimenti popolari e diversi gruppi religiosi
denunciano da tempo la guerra non dichiarata contro questa etnia, attaccata
sistematicamente: un vero e proprio processo di genocidio, con la piú totale
garanzia di impunitá.
Dom Franco, che ha sperimentato sulla pelle il
bruciore di questa violenza sfacciata, ci provocherebbe peró a cercare segni di
speranza.
Eccone uno, diretamente dal bacino amazzonico del Rio Tapajós: il
popolo Munduruku esige che il governo brasiliano riconosca formalmente il suo
territorio; in questo modo, avrebbe molto piú forza per opporsi ai numerosi
progetti di dighe idroelettriche che minacciano di allagare buona parte della
regione.
Insoddisfatti per l’inerzia ed i subdoli
interessi dei partiti al governo, i Munduruku hanno iniziato un progetto di
“auto-demarcazione”. Disegnano loro stessi la mappa della loro terra,
affermando cosí dal basso l’autoritá di tracciare i confini, a partire dalla
conoscenza del territorio, preservando i luoghi della pesca tradizionale, della
caccia e della raccolta dei frutti nella foresta, dei villaggi e dei campi
coltivati manualmente.
La storia puó essere riscritta, se diamo voce alla
“parola sacra dei piccoli”.
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