mercoledì 14 ottobre 2015

Dare ragione della nostra speranza



Ecco un'intervista recente, per conoscere ció che viviamo e comprendere ció che sentiamo. 
É un dialogo con l'amico Antonio Gaspari, di Zenit. La dedico a Zé dos Santos, l'ennesimo martire della fragile resistenza della nostra gente...

Avete appena incontrato Papa Francesco, che cosa gli avete detto e cosa vi ha detto?
La cosa piú bella che Papa Francesco ci ha detto è stata: “Io sempre, sempre, ho avuto una grande ammirazione per voi, per il lavoro che fate, per i rischi che affrontate… Ho sentito sempre questa ammirazione grande. Grazie”.
Aspettavamo da tempo l’incontro con Francesco, l’abbiamo preparato durante il nostro Capitolo Generale con un pellegrinaggio dall’altro Francesco, ad Assisi, ed abbiamo discusso per un mese nel Capitolo su come tradurre in pratica l’Evangelli Gaudium nella nostra missione comboniana.

Al Papa abbiamo detto tante cose, ciascuno nei trenta secondi che ha avuto a disposizione con lui! Credo si sia fatta una bell’idea della pluralitá della nostra famiglia comboniana: interculturale ed immersa in sfide tanto diverse ai quattro angoli del mondo. Chi gli ha parlato del dramma della guerra in Centrafrica, Sud Sudan o Eritrea; chi del dialogo con l’Islam o dell’impegno missionario con i migranti o i popoli afrodiscendenti; chi ha sottolineato la sintonia del nostro lavoro con l’enciclica Laudato Sí, specialmente in Amazzonia e con i popoli indigeni…
Come dice Daniele Comboni, siamo raggi diversi, che peró partono dallo stesso centro: l’incontro con il Buon Pastore, che ci spinge fuori e ci fa sentire il gusto di aver l’odore delle pecore!

Lei è particolarmente impegnato in una missione ad Açailândia, alle porte dell’Amazzonia brasiliana, nel punto di passaggio alla più grande miniera di ferro del mondo. La miniera e le ferrovie sono opere umane che se giustamente utilizzate in funzione lavorativa e sociale portano sviluppo e progresso, invece quanto sta accadendo lì, rovina l’ambiente, fa vivere male la gente e ci sono tante vittime. Addirittura l’avidità di alcuni è così aggressiva da sfociare in violenza e minacce contro chi cerca, come voi, di difendere le persone e l’ambiente. Può raccontarci che cosa sta accadendo?

Ci troviamo nella regione di Carajás, zona di enormi giacimenti di ferro che l’impresa Vale (dal 1997 privatizzata, diventando una delle maggiori multinazionali minerarie) sta sfruttando da soli 30 anni.
Quando queste riserve sono state scoperte, si diceva che sarebbero durate circa 500 anni. Ma il ritmo di estrazione è diventato forsennato, ben oltre le necessità effettive di minerale nel mondo.  E Vale sta raddoppiando tutto il sistema, per giungere ad estrarre nel 2017 piú di 230 milioni di tonnellate all’anno.
È chiaro, allora, che giá la prossima generazione conoscerà la fine di Carajás, uno dei patrimoni minerari più preziosi al mondo.

L’enciclica Laudato Sí, che dimostra di conoscere bene questi processi, riporta questo brano che sembra il ritratto della nostra regione: “Generalmente, quando ces­sano le loro attività e si ritirano, lasciano grandi danni umani e ambientali, come la disoccupa­zione, villaggi senza vita, esaurimento di alcune riserve naturali, deforestazione, impoverimento dell’agricoltura e dell’allevamento locale, crateri, colline devastate, fiumi inquinati e qualche opera sociale che non si può più sostenere” (LS 51).
Questo modello estrattivo è emblema della follia dell’economia di oggi. Replica in chiave moderna la pratica coloniale del saccheggio delle materie prime, ma ad un livello esasperato di crescita senza limiti.

Ascoltiamo ancora Laudato Sí: “All’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presup­posto che «esiste una quantità illimitata di ener­gia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti»” (LS 106).

Nostra Madre Terra è limitata ed il suo respiro si sta facendo affannato. Le popolazioni locali lo capiscono, lo sentono nella loro carne e cercano di difendere i territori in cui vivono, preservandoli dall’aggressione di questo modello estrattivista.
Chi vi si oppone, peró, corre serio pericolo…

Che tipo di pericolo?

Il mese scorso Raimundo dos Santos Rodrigues è stato ucciso. Era un contadino, piccolo proprietario di terra nella riserva biologica di Gurupi e membro del sindacato dei lavoratori della terra. La riserva Gurupi é da tempo oggetto degli appetiti di alcuni grandi fazendeiros e dei saccheggiatori di legname nativo (madeireiros).
La moglie era al suo fianco nell’ora dell’attentato, è rimasta ferita ed ora deve vivere nascosta, in fuga da chi la minaccia di morte. Piú di trenta famiglie della stessa comunitá sono scappate, perché temono di fare la stessa fine. Hanno abbandonato, da un’ora all’altra, case, campi e animali. Non sappiamo come potranno ricostruirsi una vita.

Parecchie delle nostre energie come missionari e difensori dei diritti umani si stanno dedicando alla protezione dei leaders locali…
Noi stessi dobbiamo agire con molta attenzione. Non abbiamo ricevuto minacce di morte, ma nel 2013 è stata scoperta una rete di spionaggio delle nostre comunitá religiose, entitá e movimenti sociali da parte dell’impresa Vale e dello stesso Stato brasiliano, con accesso alle nostre comunicazioni telefoniche e internet e infiltrando persone dentro i nostri gruppi per anticipare le nostre strategie e fare i nomi delle persone piú attive ed impegnate.
Immaginatevi il clima di sospetto e insicurezza che si è installato tra noi…

Sull’intera vicenda avete scritto un libro “Il prezzo del ferro” e creato una rete di resistenza, può dirci qualcosa in merito?

L’abbiamo chiamata “Justiça nos Trilhos” (Sui binari della giustizia), perché desideriamo che la ferrovia che attraversa 100 comunitá, in 27 municipi lungo i 900 Km del suo percorso dalla miniera al porto sull’oceano diventi un corridoio di effettivo sviluppo, nel protagonismo di chi vi abita, nelle iniziative produttive familiari e nel rispetto della cultura e dello stile di vita di queste popolazioni.
È molto importante che queste comunità (indigene, afrodiscendenti, di agricoltori, pescatori o abitanti delle periferie urbane) sentano di essere vittime di uno stesso sistema e che esso può cambiare nel momento in cui chi ne è colpito organizza speranza e resistenza.

Stiamo rafforzando ogni giorno anche l’alleanza in rete con altri movimenti e gruppi, per far interagire le periferie con i centri di questo meccanismo di mercato.
Per esempio, abbiamo seguito la filiera della produzione dell’acciaio e, con l’aiuto del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, abbiamo proposto dati e riflessioni sul “prezzo del ferro”, indicando i costi umani, sociali ed ambientali che non sono computati dai meccanismi di mercato.

In questa costruzione di alleanze, ci siamo avvicinati anche alla comunità di Taranto che, dall’altra parte dell’oceano, si ribella come noi all’inquinamento e alla morte provocati dalla siderurgica Ilva. Il minerale di ferro che cade negli altoforni dell’Ilva è estratto proprio dalle viscere di Carajás!
Accompagnare la violenza ed il dolore provocati da questo modello di produzione e consumo ci porta a ripensare al valore della vita, del futuro. Papa Francesco ci insegna che ogni creatura possiede un valore instrinseco, indipendente dal suo uso (cf LS 140). Quando comprendiamo il valore della vita, recuperiamo la capacità di porci dei limiti, per evitare la sofferenza o il degrado di ciò che ci circonda (cf LS 208).

Sulle pagine di alcuni mezzi di informazione la vostra azione viene confusa con manifestazioni di carattere politico, e il vostro spirito evangelico di difesa degli ultimi e dei poveri indicato come estremista. Spieghi ai lettori qual è il fondamento del vostro agire.

Rispetto ai mezzi di comunicazione e all’influenza che hanno i vari opinionisti di turno, faccio mie le parole del Papa al n. 49 della Laudato Sí: “tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere sono ubicati lontani da loro, in aree urbane isolate, senza con­tatto diretto con i loro problemi. Vivono e riflet­tono a partire dalla comodità di uno sviluppo e di una qualità di vita che non sono alla portata della maggior parte della popolazione mondiale. Questa mancanza di contatto fisico e di incontro, a volte favorita dalla frammentazione delle nostre città, aiuta a cauterizzare la coscienza e a ignorare parte della realtà in analisi parziali.”

Non abbiamo bisogno di giustificare a nessuno perché stiamo dalla parte dei poveri.
Ma voglio “darne ragione”, cioè provo ad indicare il significato che ha per noi.
Ci dà gioia e senso. La nostra coscienza, i nostri sentimenti e la nostra umanità sono profondamente provocati e continuamente risvegliati nello stare accanto alla gente più semplice, agli esclusi e alle vittime.
Non si sta bene, tra i poveri, perché anche lì c’è egoismo, conflitto, rabbia, delusione. Ma sicuramente si è più umani, e quindi più divini.

Dio si è incarnato (e non l’ha fatto tra i ricchi) proprio per farci capire questo. Per farci sentire la bellezza del lottare insieme, del cercare la vita e difenderla fino allo stremo. La bellezza di scoprire ragioni di speranza anche nel dolore più profondo.
Camminare insieme alle vittime ti fa capire bene cosa significhi “sperare contro ogni speranza”. 
Mi accorgo che, in questo cammino, la sete di giustizia e il bisogno di misericordia si avvicinano fino a coincidere e dare il senso più profondo alla vita.