giovedì 13 marzo 2008

Per una “Ecologia della mente e del cuore” (I)


Nei post precedenti abbiamo cominciato a riflettere sul paradigma ecologico come una sfida per nuovi stili di missione.
Abbiamo distinto tre sfere di riflessione: la dimensione culturale, quella economica e la vita dei poveri. Non ha senso una proposta ecologica che non sia in costante interazione con questi tre aspetti.
In questi due nuovi post vogliamo approfondire la prima dimensione, quella culturale e religiosa.

“Non possiamo più affrontare una sfida ecologica isolandola dal suo contesto sociale, culturale e anche religioso. È in questione una diversa visione del mondo, che richiede conversione, cioé nuovi atteggiamenti e nuovi obiettivi negli occhi e nella pratica di ogni persona, chiesa e società”.

Qual è uno dei pericoli attuali? Come dicono i giovani della periferia di São Paulo: “L’arte che libera non può venire dalla mano che rende schiavi”. Forse capita anche a noi -chiese, missionari e laici- di promuovere vuoti discorsi ecologici mantenendo, nonostante ciò, atteggiamenti e modi di pensare totalmente anti-ecologici.


Una visione distorta della realtà

Qualsiasi prassi di oggi deriva da idee e valori sedimentati da molto tempo nella nostra cultura, religione e visione del mondo.
Fin dai primi tentativi di spiegare l’origine del mondo, il senso della vita e il ruolo dell’essere umano nella creazione, riconosciamo l’influenza di un pensiero “viziato”.
La maggioranza dei miti della creazione nacquero in epoche di conflitto sociale, come tentativi di giustificare gli squilibri della storia. Vivendo in tempo di conflitto, l’umanitá giudicava che esso fosse il riflesso di dinamiche violente nel cielo (conflitto tra divinitá). La cosmogonia di molte culture nacque proprio da questa interpretazione distorta iniziale. Il mondo è violento perché gli dei sono violenti, o quanto meno sanno “farsi rispettare”!

Le relazioni tra tutte le creature continuarono ad essere regolate da questo modello.
Cos’è che ha valore e si afferma? La persona e il sistema che riescano ad imporre un ordine violento, mettendo fine in questo modo ad ogni conflitto.
Si tratta della teologia e sociologia della forza, di relazioni dualiste e androcentriche, della competizione e della lotta per la sopravvivenza. La stessa natura, nelle sue regole più elementari di selezione naturale, conferma questo schema.

Anche diversi passaggi della storia della religione cristiana rafforzano questa lettura: si afferma un ‘Dio’ forte, controllore, Padre-Patriarca, ordinatore del cosmo, dal quale non si può fuggire (e che punisce e corregge con fermezza chi disobbedisce all’ordine stabilito).
Al servizio di questo ‘Dio’ esiste una casta privilegiata di funzionari scelti (sacerdoti, spesso appartenenti alla stessa etnia o allo stesso gruppo). Un sistema ben articolato organizza tutta la società secondo questa gerarchia divina immutabile: chi è nato per essere servo rimarrà servo, obbediente ad ogni regola indicata da ‘Dio’.
Consideriamo che il termine ‘gerarchia’ deriva dalla parola greca hieròs, che significa ‘santo’. Il sistema di potere e le relazioni di autorità e obbedienza si impongono automaticamente come derivate da ‘Dio’ e con la sua benedizione.

Nell’antico Israele questa costruzione culturale generò e legittimò il sistema dei tributi e del Tempio: l’ordine religioso e quello socio-economico si sovrapposero, impedendo qualsiasi tipo di alternativa e garantendo la sicurezza sociale attraverso l’imposizione.
Il biblista Sandro Gallazzi definisce l’essenza di questa religione come “Monolatria devastante”: non rimane il minimo spazio per la libertà e pluralità della vita.
Il Tempio e l’Impero camminavano mano nella mano fin dal tempo di Gesù, e questa santa alleanza si ripropone nel corso di tutta la storia.
Il sistema di culto e sacrifici a Gerusalemme promuoveva la concentrazione di ricchezza in nome di Dio: da qui il tesoro del Tempio, la raccolta di offerte per la purificazione rituale, le tasse che il popolo doveva pagare tanto alla dominazione politica straniera quanto ai suoi alleati della gerarchia sacerdotale.


Religione anti-ecologica?

E’ interessante osservare come questa struttura politico-economica, con una forte influenza religioso-culturale, ha avuto fin dall’inizio un impatto violento anche in ambito ecologico: il sistema di sacrifici permanenti prevedeva un saccheggio consistente delle risorse del popolo e della natura, come ben sottolineano diversi passaggi biblici. Tra questi un passo del libro di Neemia, capitolo 10:

Noi ci siamo imposti per legge di dare ogni anno il terzo di un siclo per il servizio della casa del nostro Dio: per i pani dell'offerta, per il sacrificio continuo, per l'olocausto perenne, per i sacrifici dei sabati, dei noviluni, delle feste, per le offerte sacre, per i sacrifici espiatori in favore di Israele e per ogni lavoro della casa del nostro Dio. Tirando a sorte, noi sacerdoti, leviti e popolo abbiamo deciso circa l'offerta della legna da portare alla casa del nostro Dio, secondo i nostri casati paterni, a tempi fissi, anno per anno, perché sia bruciata sull'altare del Signore nostro Dio, come sta scritto nella legge. Ci siamo impegnati a portare ogni anno nel tempio le primizie del nostro suolo e le primizie di ogni frutto di qualunque pianta, come anche i primogeniti dei nostri figli e del nostro bestiame, secondo quanto sta scritto nella legge, e i primi parti del nostro bestiame grosso e minuto, per presentarli nella casa del nostro Dio ai sacerdoti che prestano servizio nella casa del nostro Dio.

Il consumo annuale di legno era enorme, per consentire ogni giorno l’olocausto (termine che letteralmente significa 'bruciare tutto'). Il sistema di sacrificio era basato sul concetto di sangue e fuoco come elementi di espiazione e di purificazione: per ottenere perdono dal 'Dio' che mette ordine nella società occorreva lo spargimento di sangue delle vittime sacrificali, bruciando in seguito i loro corpi.

Gallazzi, in un articolo affascinante, espone una ricerca sul sincretismo nell'unico tempio di Iahweh fuori dal territorio di Israele: Elefantina, in Egitto (VIII-VI secolo prima di Cristo). Il culto javista è associato, in questo tempio, a un’altra divinitá, femminile.

Questo tempio non faceva concorrenza a quello di Gerusalemme: "È un culto di donne per la Regina del Cielo, culto non sacrificale, usando incenso, cibo e bevande; culto per l'abbondanza e la fertilità, culto popolare, che non richiede sacerdoti né templi, celebrato nella città e nelle aree rurali". "Memoria di una religiosità non escludente e di un javismo non ancora monoteista". Un altare senza sacrifici, simbolo evocativo di una società che rifiuta la violenza come mezzo di controllo sociale e ambientale. Inoltre, "la presenza di un culto ad una divinità femminile doveva aprire alle donne spazi sociali che erano impensabili a partire da un culto puramente monoteista e maschile".
Esperienze religiose di questo tipo, senza voler semplificare con soluzioni politeiste, testimoniano che nel dialogo con altre culture, religioni e popoli "un altro Iahweh è possibile”!

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