giovedì 4 dicembre 2008

Esperar


Piú che di Natale, ci viene facile in Brasile parlare dell’attesa: nel conflitto tra la vita e la morte (almeno qui) non c’è ancora una vittoria definitiva. C’è gente che aspetta; espera, come si dice qui.
Esperar ha due significati: aspettare e sperare.
Sperare è un verbo attivo, resistente, di lotta (non a caso usiamo spesso l’espressione “trincheiras de esperança”, trincee che difendano ostinatamente quello in cui crediamo). Quelli che sperano appaiono sempre piú come dei ‘cospiratori’: oggi sperare è andare contro corrente, scegliere il conflitto.
Aspettare è molto piú facile e spontaneo: è quello a cui la gente pian piano viene addomesticata. Dai programmi di sussidio governativi alla politica paternalista e di corruzione, tutti sono educati alla dipendenza e all’attesa. È una strategia globale che smorza il sogno e ammaina la rivolta.
Questo tempo di avvento, dunque, è di resistenza: per risvegliare la speranza, per non lasciarci spegnere, per mantenere viva l’indignazione, il senso di giustizia e di riscatto della nostra dignità, del protagonismo dei piccoli! 

La Parola ci ripete, insistentemente, che c’è qualcosa di grande da sperare. Per Isaia, un germoglio spunterá dal vecchio tronco del popolo di Dio, dalle sue radici.
In questa nostra terra pre-amazzonica, devastata e violentata, ci sono solo tronchi mozzati e sembra che nessun germoglio riesca piú a spuntare. Anche la chiesa militante, viva e sognatrice della Teologia della Liberazione sembra soffocata da una nuova onda barbiturica, una religione mediatica e emotiva, che accarezza la pelle ma non smuove alla trasformazione.
Comprendiamo con il Profeta che è tempo di lavorare alle radici: è lí che la vita resiste. Il Signore ci garantisce che non si possono cancellare anni di storia e di lotta, di memoria e di identità; questo vale qui in Brasile e lá in Italia, dove… fa piú freddo.
Fare memoria e riscattare modelli e testimoni nella Storia e nelle nostre storie: esperar è aguzzare lo sguardo in avanti, declinando peró i verbi e le esperienze del passato, con pazienza e ostinazione.
“Per risvegliare la coscienza del popolo, il cospiratore della speranza deve contare con una infinita pazienza” (p. José Comblin)
Camminiamo, dunque, in questo avvento con esperança grande e pazienza infinita: è tempo di dissodare a fondo il terreno, lavorare in profondità, perché molto di quello che cresce attorno a noi e ci soffoca non ha radici e presto avvizzirá.

Sulla scrivania ho una piccola statua di una donna indigena, gravida.
Ogni anno il Signore ci riconduce al principio della nostra vita: la magia dell’attesa, della gravidanza, è il riferimento piú vero per l’uomo e la donna di fede. Con ogni donna, crediamo con testardaggine che la vita si aprirá nuove strade.
Qui sognamo una terra di gente riconciliata con la natura e la foresta, capace di vivere in simbiosi con il creato e ribelle ad ogni modello di sviluppo che succhia sangue e risorse, finché la vita non secchi. Sognamo una chiesa di piccole comunitá corresponsabili, risorte nel cammino protagonista, curvate sulle vittime che ci circondano, coraggiose nella denuncia e nella visione politica.
E tu che leggi, dal cuore di questa Italia che accompagnamo con preoccupazione dalle periferie del mondo, o que esperas? Cosa attendi? E in nome di chi?
Cerca di includere anche noi e i nostri sogni nelle tue attese!
E il Dio della Vita ci accompagni e apra cammino!

domenica 12 ottobre 2008

La violenza contro la natura: disperazione od opportunità?



Riflessione liberamente ispirata al testo “L’intera creazione geme …”, RIBLA 21

Il gemito di Giobbe ed il gemito della creazione.
Nella Bibbia ci sono due forti gemiti, che lo stesso Dio fatica a consolare.
Il gemito di Giobbe è il grido di una persona che si lamenta per la sua situazione (sofferenza, miseria, malattia, esclusione …) e cerca avidamente migliori condizioni.
La creazione, dal canto suo, geme lamentando la sua vocazione alla vita costretta dalla violenza e minacciata di morte definitiva.
Il sistema economico attuale pone in conflitto queste due grida, crea competizione tra gli interessi della persona e quelli della natura. L’accesso al lavoro si scontra con la preservazione dell’ambiente (per ogni nuova impresa pianificata, la parola magica che apre la strada a tutte le licenze è la promessa di centinaia di nuovi posti di lavoro … anche se quasi sempre si tratta di montature promozionali). Allo stesso modo, la natura è considerata nemica del progresso e dello sviluppo.
Giobbe cerca una vita piena ed abbondante; i suoi interessi sono soddisfatti nei paesi sviluppati, mentre la natura continua a gridare da lontano, nei paesi-deposito più poveri del mondo.
Giobbe, dal canto suo, si sente completamente innocente e pure in diritto di gridare contro Dio, recriminando vita e soddisfazione personale. Il Signore gli dá ragione: “se il tuo orizzonte fosse solo la sfera personale, avresti tutto il diritto di gridare e lamentarti. Ma lascia che la tua voce si calmi e comincia ad ascoltare anche altre grida: il clamore della natura, delle masse dei poveri, del sistema squilibrato che sta franando … Comincia ad integrare le tue necessità con quelle dell’intera creazione!”
E’ questo il senso della bella poesia di risposta con la quale Dio riesce ad ammansire Giobbe ed includere la sua vita in una sfera esistenziale più ampia (Giobbe 38-42):
Ha forse un padre la pioggia? O chi mette al mondo le gocce della rugiada?
Dal seno di chi è uscito il ghiaccio e la brina del cielo chi l'ha generata? Come pietra le acque induriscono e la faccia dell'abisso si raggela. Puoi tu alzare la voce fino alle nubi e farti coprire da un rovescio di acqua? Scagli tu i fulmini e partono dicendoti: «Eccoci!»?
Giobbe, che inizialmente si sentiva vittima innocente ed unico meritevole della compassione di Dio, apre gli occhi e dichiara umilmente: “Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo” (Giobbe 42,3). Il nostro piccolo uomo sta cominciando a pensare con il cuore grande di Dio; ha incluso nei suoi sentimenti, sofferenze e desideri anche quelli della vita più ampia che lo circonda. Adesso è in sintonia con la creazione, ha superato il conflitto tra gli interessi dell’individuo e il bene maggiore del tutto che esiste.

A chi spetta una teologia della terra?
Chi ci aiuterà a vivere, individualmente e come società, questa conversione di Giobbe?
Senza dubbio non saranno le grandi multinazionali, potenti divulgatrici della loro teologia personale. Loro vogliono definire – dall’alto al basso- ciò che è sostenibile, “verde”, puro.
Ma “le vittime sono sempre locali” (Vandana Shiva). E’ in basso che si ha la vera nozione dell’impatto di ogni progetto.
Da tempo, Dio ha cambiato di posto! Non ci serve più qualcuno che ci dica dall’alto ciò che è bene e ciò che è male; non crediamo che la verità stia semplicemente nella versione divulgata dei fatti; non abbiamo fiducia nei potenti mezzi di comunicazione che conquistano la coscienza.
“La verità si trova nelle vittime” (Jon Sobrino) e Dio ha scelto questo unico luogo d’interpretazione della realtà!
Perciò una nuova teologia della terra può nascere soltanto nelle ferite delle vittime, lasciando parlare i corpi offesi ed ascoltando il lamento della creazione, dal basso. Il Vangelo rivela che Cristo risorto porta con sé le ferite della croce … ed è esattamente a partire da queste che Tommaso riconosce il Signore. Le ferite della terra e del popolo sono il Corpo di Cristo violato, punto di partenza per una riflessione permanente sulla Vita e sulla Resurrezione possibile.

Alcuni pilastri di questa teologia della terra.
Assumendo il punto di vista “di quelli del basso”, possiamo rilevare tre espressioni interessanti:

La rabbia:
“Non ce la facciamo più!” è il grido ogni volta più frequente che ascoltiamo, restando a fianco delle vittime. E questo lamento si fa reazione, arriva a parlare più alto della violenza incarnata nella realtà dalle grandi imprese, che agiscono silenziose ed impunite passando sopra i poveri. All’inizio questa rabbia può spaventare e sembrare violenta; poco a poco finiamo coll’identificarla con il desiderio istintivo di farsi ascoltare: quando il rumore di fondo della violenza è costante ed oppressivo, bisogna alzare la voce.
Ci sono persone e gruppi che da tempo hanno abbassato la testa di fronte alla pressione violenta imposta su di loro: si sono abituati; ci sono altri (e stanno aumentando) che non sopportano più ed hanno il coraggio di prendere posizione. A volte speriamo che questa rabbia possa contagiare più persone, perché il desiderio di consumo e di accumulazione spengono lo spirito.
Oggi in Brasile un movimento parallelo in vari Stati della Federazione sta provando a “legalizzare la violenza storica”: i danni ambientali, le carneficine, il disboscamento, l’inquinamento vengono considerati un male inevitabile, che è successo e che non si può più aggiustare.
Questo gruppo di potere mira a negare la storia, annullare il legame stretto tra i popoli indigeni con le loro terre che fanno gola a tutti, diminuire la dimensione dell’Amazzonia Legale cosi che nessuno possa più tentare di recuperare le condizioni originarie. Di fronte a questo pensiero clandestino che cerca di mascherare la violenza subita da queste regioni è necessaria una reazione vigorosa, orgogliosa: la rabbia deve svegliarci!

La mistica e l’attenzione per la vita:
Dall’inizio dell’umanità, si percepisce un legame indissolubile tra Dio, il popolo e la terra. La vita non esiste in mancanza di uno di questi tre elementi. Lo stesso avviene nella cultura dei nostri popoli della terra: profondamente religiosi, senza preoccupazioni di dottrina o paura del sincretismo: “Tutto ciò che è fonte di vita per il povero stanco e demoralizzato fa parte del volto di questo Dio che è unico, ma che per ognuno dei poveri assume una faccia diversa, capace di generare vita” (S. Gallazzi).
All’interno dei nostri popoli si nasconde un potenziale inespresso di vita ed attenzione: basta osservare con che solidarietà e prontezza una famiglia povera aiuta un’altra ad educare i figli, adottare o ricevere un bambino, condividere il pane. Queste stesse famiglie possono maturare un sentimento analogo di attenzione verso la vita come un tutto, a partire da nuove piccole pratiche come: disciplina ed autocontrollo al gettare l’immondizia (diminuendola o differenziandola); amore e rispetto per gli alberi; maggior attenzione alla bellezza dei nostri quartieri, case, ambienti …

La creatività:
Le vittime sono sempre locali, quindi la risposta deve nascere da loro. Si tratta di quelle piccole pratiche che abbiamo già accennato: i poveri dispongono di una grande creatività per guadagnare il loro sostentamento e possono applicare la stessa creatività per rendere l’esistenza di tutti davvero sostenibile. In questo senso l’educazione di base ha un potenziale enorme ed ha già dimostrato che può trasformare la società.
Questa creatività personale deve poi trasformarsi in creatività politica: oggi si può investire in microcredito, progetti di generazione di rendita, agroecologia ed agricoltura familiare, progetti di scambio di beni tra campagna e città…

Siamo al principio di una nuova creazione, se vogliamo. Dipende da noi, come ben evidenzia Ivone Gebara: “La terra non ha forma e l’oscurità l’avvolge … Siamo al principio. Il disordine e la violenza imperano e non si conoscono più i sentieri della terra fertile, dell’acqua limpida, del cantare degli uccelli colorati, delle stelle che brillano nel firmamento, della luce accogliente del sole o di quella della luna, amena e argentata, e del sorriso soddisfatto degli umani. Siamo al principio, il principio caotico di tutto, il principio/fine “dell’eterno oggi” di tutta la creazione. Siamo al principio oggi, siamo oggi al principio!”.

venerdì 19 settembre 2008

Architetto, pellegrino o seminatore


Ci sono persone che sentono il bisogno di “dare una struttura” a Dio. Fargli una casa, dirgli dove deve stare e cosa deve fare… convinti che Dio obbedisca a questi piani di piccolo cabotaggio.
Davide (come ogni re, molti superiori, coordinatori, vescovi o parroci) era uno di questi.
Capita anche a me questa tentazione forte di fare lo “scultore solitario”, dando forma ai miei progetti ancora prima di ascoltare la voce della gente e del Signore.
Siamo in molti, soprattutto quando ci viene affidato un ruolo di responsabilità, a stringerci alla praticità ed efficienza dei nostri disegni. L’aspettativa della gente o la fretta di portare frutto ci costringe ad aumentare il ritmo, lavorare da soli o forzare le relazioni in funzione dei risultati.
Tutto deve correre come progettato.

All’opposto, il pellegrino passa di casa in casa. Ha tempo. Non ha bisogno di una sua struttura: nell’incontro cerca segni di Dio e ne condivide altri… poi va, continuando cammino. É un mistico; dall’animo profondo, ha sete di Dio e di significati. Parla al cuore della gente, ma non tende a fermarsi: il desiderio e la ricerca lo spingono oltre.
Forse non lascia molto.

Gesú è stato seminatore. Il seminatore getta il seme e lo lascia crescere; lavora la terra con fatica e persistenza; torna ripetutamente a vedere cosa sta crescendo.
È una bella sintesi tra chi progetta e chi passa senza fermarsi.
Ma com’è difficile restare, andando al passo della gente! E allo stesso tempo sforzarsi di guardare piú in profondità e piú avanti…
Sento forte, qui, la sfida di trainare, provocare, incitare e aprire cammino. Ma anche la necessitá costante di non perdere la spiritualitá, di richiamare tutti al senso di quello che stiamo facendo…

E tu, nella tua famiglia o comunitá, in chi di questi personaggi ti riconosci di piú?

venerdì 15 agosto 2008

Amazzonia: saccheggio e rivolta


In tanti stanno parlando e scrivendo sull’Amazzonia. Eppure siamo convinti che quello che abbiamo da dirvi ha ancora sapore, perché scritto da una terra che era Amazzonia e non lo è piú.
Siamo una comunitá missionaria comboniana che è venuta a cercare questi posti, sfidata dalla violenza silenziosa della devastazione, che parla con spazi immensi di niente: solo terra, terra, terra… per chi? Per quale progetto di sviluppo?

Vi scriviamo da Açailândia, in Maranhão, Brasile. Il nome della nostra cittá significa ‘la terra dell’açaí’, un frutto rosso sangue che è stato risucchiato via dal disboscamento.
La regione della nostra comunitá si chiamava Piquiá, era il nome di un’altro frutto; pochi anni fa l’hanno ribattezzato Pequiá, acronimo che sta per ‘Polo Petrol-Químico de Açailândia’.
Nei nomi, i destini delle cose.

Ora l’Amazzonia è lontana, anche per noi. Qui siamo quello che un giorno altri, alcune centinaia di kilometri piú all’interno, potrebbero diventare: deserto.
Deserto verde, certo: monoculture di brachiaria, che è l’erba dei pascoli immensi nei latifondi.
O di eucalipto, la ‘tenda verde’ per nascondere i forni di produzione del carbone. Usavano eucalipto per bonificare le paludi del Lazio; oggi in Maranhão abbiamo piantagioni di questa specie con centinaia di milioni (!) di alberi, cresciuti in suoli diserbati dal concime chimico: a breve le falde acquifere rischiano di esaurirsi, facendoci passare dal deserto verde alla steppa.

Açailândia secondo noi è un paradigma, una strofa della storia dello sviluppo in Brasile che bisogna imparare tutti a memoria… per evitare di ripeterla in altri racconti.
Non è per questo, peró, che la nostra cittá ha scelto il monumento-simbolo al suo ingresso: due enormi tronchi di alberi nativi, uno incassato nell’altro a formare un ‘tau’ che inneggia al passato delle 60 grandi segherie della zona. Memoria che lo sviluppo è passato di qui, secondo alcuni; monumento ai caduti, secondo altri. Per entrambi i gruppi, resta il fatto che le segherie hanno mangiato legna fino a dieci anni fa senza lasciare nemmeno le briciole; poi si sono tutte trasferite in Pará, piú a nord, lasciandoci solo… la segatura!
Cosí siamo una cittá-simbolo: orgoglio del Maranhão, secondo municipio piú ricco nel nostro Stato, modello efficace della crescita… ma anche luogo del delitto in cui è ancora possibile scovare le tracce di tutti i responsabili della devastazione.
Andiamo a conoscerli.

La Estrada de Ferro Carajás é una delle maggiori ferrovie mai costruite: 892 kilometri per collegare il piú ricco giacimento di ferro del mondo (Carajás) a uno dei principali porti commerciali dell’America Latina: São Luís. Ci passano quotidianamente 12 treni di 330 vagoni e 4 locomotive, carichi di minerali: nel solo 2005 il guadagno netto della ferrovia è stato di piú di 200 milioni di dollari.
Senza calcolare che oggi il minerale di ferro imbarca a São Luís al prezzo di 50 dollari alla tonnellata e viene riscaricato in Cina a 140 dollari. La stessa impresa che estrae il minerale si occupa del suo trasporto, occasione per altri guadagni massicci: state conoscendo la seconda compagnia mineraria del mondo, Vale do Rio Doce.
È questo colosso il grande responsabile di molti movimenti economici qui in Maranhão e nel Pará: una compagnia con 35 mila impiegati, 10 mila domande di lavoro nella sola zona dei giacimenti e una esternalizzazione ad altre aziende del 90% della mano d’opera locale.
Fa capo alla compagnia Vale do Rio Doce lo sfruttamento complessivo di questa fonte di ricchezza, nei suoi diversi passaggi: il ciclo di estrazione del minerale di ferro, la fusione nelle industrie siderurgiche locali senza nessun tipo di filtro né controllo ambientale, il consumo di carbone per alimentare gli altiforni, la devastazione della foresta vergine (fino a qualche anno fa) per ottenere carbone vegetale e le piantagioni massicce di eucalipto (da pochi anni) per sostituire la foresta che c’era prima.
Il “Programma Grande Carajas”, che ha innestato la ferrovia in queste terre per ‘portarvi lo sviluppo’, è stato fin dall’inizio pilotato dall’esterno: le imprese multinazionali durante il regime militare erano le uniche ad avere accesso ad informazioni privilegiate sulla ricchezza di queste terre.
Grandi oligopoli giapponesi e statunitensi, alleati ai generali di fine dittatura, si sono spartiti nel lontano 1978 la terra e le opportunitá. La compagnia Vale do Rio Doce all’inizio è stata anche pubblica, ma dal 1997 è tornata privato bottino degli investitori internazionali.
Cosí, ogni giorno, il nostro popolo maranhense affacciato alla finestra della sua baracca vede passarsi sotto il naso ricchezze enormi a cui non potrá avere il minimo accesso.

Lo sfruttamento minerario è solo una tappa della grande sequenza dello sviluppo: un anello di cui non si riconosce piú l’inizio. Latifondo, disboscamento per produrre, allevare o ricavare carbone, incendi costanti per ripulire grandi aree improduttive da destinare a pascoli, monocultura della soia e dell’eucalipto, industrie siderurgiche, camion…
La violenza ambientale è evidente e innegabile, tanto che la compagnia si è subito prodigata in operazioni mediatiche: poca preservazione ambientale e molta divulgazione della sua preoccupazione per la natura. Nel linguaggio degli affari, si chiama ‘greenwashing’: Una sorta di lavaggio in verde della coscienza davanti all’opinione pubblica. La compagnia ha annunciato che solo nel 2008 investirá 260 milioni di dollari per la preservazione dell’ambiente… eppure continua ad essere il gruppo minerario con piú multe ambientali in Brasile!
Per due volte ufficialmente Vale do Rio Doce ha dichiarato di non rifornire minerale di ferro alle industrie siderurgiche che ancora stessero tagliando legna direttamente dalla foresta. Ottima intenzione, ma giá questo bisogno di rinnovare pubblicamente l’impegno fa sospettare che la prima volta non si sia riusciti a mantenerlo…

C’è poca trasparenza nelle operazioni ambientali della compagnia. Quello che si riesce a vedere, sempre e comunque, sono le 14 industrie siderurgiche lungo la ferrovia, costruite a ridosso delle case della nostra gente (che era lí da almeno 20 anni prima). Ne stiamo aspettando altre due qui vicino e una grande acciaieria ad Açailândia, cittá che non ha ancora imparato a tenersi in piedi sotto il peso della produzione del ferro.
Il sistema di produzione energetica è pericolosamente inquinante (come nel caso di Barcarena, Pará, con una futura centrale a carbone importata da oltreoceano!) o devastante (come nel caso della grande diga di Tucuruí, che -lunga 11 km- ha coperto 2.430 km² di foresta e terre indigene).

Il dolore che questo sistema provoca non è solo per la foresta, ma per tutta la vita che vi si incontra:
le popolazioni indigene, ad esempio, sono spesso vittime inconsapevoli del progresso. Quasi sempre in un silenzio collettivo di complicità.
Ogni tanto, come nel luglio scorso, appaiono piccoli segni di riscatto: il popolo indigeno Krenak, in Minas Gerais, ha ottenuto un’indennizzazione di quasi 8 milioni di dollari per danni morali collettivi, grazie ad un’azione sostenuta dal Ministero Pubblico Federale.
Ad Ourilândia (Pará), in una delle zone di assentamentos dove vivono i piccoli produttori rurali, lo Stato brasiliano ha avuto il coraggio di processare la compagnia Vale do Rio Doce per illegalità nell’estrazione del nichel.
In maggio 2008 il Tribunale Permanente dei Popoli ha condannato la compagnia per crimini ambientali e violazione dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani nella regione di Sepetiba (Rio de Janeiro).

È su queste sintonie che dobbiamo muoverci, per scrivere frammenti di storia che escano dagli spartiti di chi possiede gli strumenti di potere.
Oggi sembra che le uniche proposte redditizie siano il latifondo, la monocultura o l’agribusiness.
Ma chi conosce la ‘nostra’ gente crede ancora possibile, malgrado tutto, scommettere sulla produzione familiare, su progetti di piccole dimensioni: ben accompagnati, seguiti per un numero garantito di anni, magari finanziati proprio dalla multinazionale che qui in Brasile sta guadagnando di piú dalla terra e dalla foresta.

È con questo sogno che una rete di enti locali del nord del Brasile si sta stringendo sempre di piú: oltre a noi Missionari Comboniani, si sono riuniti Fórum Carajás, Sociedade Maranhense dos Direitos Humanos, Central Única dos Trabalhadores (Maranhão), Cáritas (Maranhão), Sindicato dos Ferroviários de Pará-Maranhão-Tocantins, Fórum Amazônia Oriental, Associação Juízes para a Democrazia e vari altri gruppi.
Da fine 2007 è nata una campagna, chiamata “Justiça nos Trilhos” (Sui binari della Giustizia) che sta articolando tutte le realtá coinvolte dalla compagnia Vale do Rio Doce nel corridoio di Carajás con altri gruppi di vari paesi del mondo che vivono le stesse contraddizioni.
Il primo appuntamento importante sará il Forum Sociale Mondiale (FSM), dove la campagna “Sui binari della Giustizia” presenterá un seminario internazionale con la partecipazione di Marina Silva, ex ministra dell’ambiente, vari attivisti locali della regione di Carajás e rappresentanti di movimenti di altre parti del mondo.
Fino al FSM (e molto oltre) la campagna continuerá a studiare l’impatto ambientale di Vale do Rio Doce e del modello di sviluppo oggi indiscusso qui in Brasile.

L’obiettivo della campagna è triplice: ottenere indennizzazioni per tutte le violazioni commesse da Vale do Rio Doce nel corridoio della ferrovia, forzare le operazioni di compensazione ambientale che sono state assunte come impegno, ristabilire un fondo di sviluppo della regione intera, a quota fissa annuale proporzionale ai guadagni della compagnia, gestito da un consorzio di municipi e movimenti sociali locali.
Il treno della campagna sta giá correndo, tanto lanciato quanto quelli della multinazionale.
Giá il fatto di essersi incontrati ‘sui binari’ in gruppi tanto diversi è un segno di speranza e organizzazione popolare, che forse puó ispirare anche altri movimenti, in altri luoghi.
A chi ci legge chiediamo solidarietà e collaborazione: abbiamo visto altre volte quanto le multinazionali siano sensibili all’opinione pubblica internazionale; saliamo insieme, dunque, sui binari della giustizia!

lunedì 4 agosto 2008


Questo é il mio corpo

Una frase ripetuta centinaia di volte.
Quando do la comunione alla gente delle nostre piccole comunità, dico loro “O corpo de Cristo” e la veritá piú profonda di questa frase è che loro sono il Corpo di Cristo!
Lo dico a me: Albino, Jocilene, Dirce, Asuério, Zélia, voi siete Corpo di Cristo, pezzettini di comunitá di cui mi voglio prendere cura!
Il pane spezzato insieme ci rende tutti uguali, capaci di riconoscere lo stesso Corpo nell’altro, bisognosi dei frammenti spezzati di umanitá che si sono persi lontano e che vanno ricondotti a casa, reimpastati nello stesso pane.

Questo è il mio Corpo…
Paloma, 14 anni bruciati dal crack e dalla prostituzione.
Ana Paula, che aspetta meno preoccupata di noi i risultati del test sull’AIDS… e ha solo 13 anni.
Maria Vitória, che è morta denutrita in questa cittá, dove circolano milioni in minerali e petrolio (cf. il post del 7 febbraio).
È un corpo spezzato, che dobbiamo curare, in un tempo in cui al contrario il culto del corpo è individuale: palestra, diete, profumi, plastiche, reimpianti…
Il Vangelo ci chiede di raccogliere tutti i pezzi di pane ‘avanzati’ (Mt 14,20) e di ricomporre continuamente il corpo della comunitá.
Vibrare in sintonia con ciascuno delle sue membra: “Il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra. (…) Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui” (1 Cor 12)

mercoledì 2 luglio 2008

Né troppo vicino né troppo lontano da Dio

Questo blog serve a me (e spero anche ad altri) per capire da che parte sta Dio, chi è realmente, cosa ci sta dicendo nella confusione sempre piú assordante e nella sfida (dura) di non perdere la speranza.
È bello e difficile fare tale domanda da straniero in questa terra: ho un DNA italiano, ma convivo quotidianamente con altri ritmi, idee, visioni.

Come suggerisce il Vangelo, possiamo comparare il cammino con Dio al rapporto tra un papá e suo figlio. Ci sono figli che non vogliono perdere il tepore e la sicurezza di casa, altri che se ne vanno presto per il mondo.

La nostra cultura europea sta scoprendo l’indipendenza (e la solitudine) di figli che si sono allontanati molto; il cuore di questa gente del Maranhão, al contrario, è molto stretto a Dio, a cui abbiamo giá ufficialmente attribuito la nazionalitá brasiliana!
Il nome e l’influenza di Dio, qui, ricorrono ad ogni respiro: la religiosità popolare è quasi catturata in una ‘dipendenza fetale’ da Dio. Tutto quello che avviene, in qualche modo è dovuto a Dio e ci parla, dando segnali da interpretare e rispettare.
Conosco persone con quella fede semplice che smuove le montagne; un affidamento totale che le porta a concludere: “mi rimane solo Dio”… e per loro é piú che sufficiente: non crollano nemmeno sotto le difficoltá piú pesanti.
Allo stesso tempo, peró, vedo il pericolo di lasciarsi catturare da questa dipendenza assoluta. Una fede che fatica a maturare e farsi adulta. Risuona in me quel passaggio del Vangelo quando Gesú, in modo provocante, si mette a dormire in barca, proprio durante uma tempesta.
“Signore, non ti importa che moriamo?” Il Signore risponde “Gente di poca fede”... e si riferisce alla fede in se stessi, tanto necessaria quanto quella in Dio. A volte ci vorrebbe proprio, qui nel Maranhão, lasciar dormire di piú Dio e svegliare tanta gente ipnotizzata!
E da noi in Italia? Forse il nostro caso é quello di un altro sonno: “Torno dai discepoli e li trovó che dormivano. E disse: 'Cosí non siete capaci di vegliare un'ora sola con me?'”
In questo caso Dio veglia e soffre, appassionato nel dolore di tanta gente. E non riesce a trovare discepoli dagli occhi aperti, disposti a stare con lui...

giovedì 22 maggio 2008

Due segugi per il Corpo di Cristo


Ogni mattino, alzandomi e pregando, è come se liberassi due cani-segugio. Vai, giá!
Uno dovrá correre dietro alla gente, inseguire i sogni e la lotta di questo popolo, stare dietro i loro passi, mangiare chilometri.
L’altro dovrá correre dentro di me, aprire spazi di accoglienza, farmi crescere in pazienza, rispetto, amore. Inseguire quello che sono e non riesco ancora a vivere, mostrarmi quanto lontano posso andare nel cammino interiore.
La Parola è come la pista da fiutare, apre cammino in entrambe queste direzioni.

Alla sera, stanchi, questi due segugi tornano a casa. Molto spesso smarriti, con l’impressione di aver camminato poco.
Quasi sempre, lo confesso, quello che correva fuori torna con molta strada nelle zampe, molte storie da raccontare. E l’altro si accorge di aver corso poco, perché aveva terre molto piú aspre da attraversare; spesso si ferma bloccato sempre dagli stessi ostacoli.
Ma richiamarli insieme a riposare sotto lo stesso tetto mi fa bene, mi riunifica, mi provoca ad addestrarli ogni giorno un po’ meglio.

Oggi celebriamo il Corpo di Cristo. I miei due segugi dovrebbero conoscerlo bene: uno ne insegue tutte le tracce che lascia tra la gente. L’altro cerca di scovarlo nascosto anche nel mio piccolo corpo, che assomiglia poco al corpo di Cristo, ma forse ne conserva alcune tracce di profumo.

domenica 18 maggio 2008

Cerco la sapienza e la profezia


Passa il tempo, in queste terre brasiliane cariche di sfide. Si alternano molte domande, ma una resta alla base di tutto: dov´è Dio?
Perché il senso della mia vita è stare dove sta Dio e vivere secondo la sua passione.
Mi rendo conto che ci sono due modi di farlo, ed entrambi sono importanti. Per capirci, li chiamo 'sapienza' e 'profezia', perché anche nella Bibbia i nostri grandi maestri di vita hanno vissuto queste dimensioni.

La profezia, qui e oggi, ci forza a lottare giorno per giorno contro ingiustizie grandi, sproporzionate alle nostre forze. Ci troviamo nel cuore di un sistema che succhia risorse dalle viscere della terra e della gente.
Ogni giorno ci passa davanti agli occhi, 12 volte, giorno e notte, il treno della seconda maggior compagnia mineraria del mondo. Carico di ferro e altri minerali, é un salasso quotidiano e silenzioso a cui la gente si é ormai abituata e che attorno a sé ha creato un ciclo produttivo estremamente dannoso: siderurgiche, produzione di carbone, inquinamento, monoculture di eucalipto, gente sem-terra e terra sem-vida...
Il latifondo é anche qui il primo responsabile della morte della foresta e del fallimento della piccola agricoltura familiare.
La profezia ci chiede di prendere posizione, ma con competenza e serietá. Per questo é nata da qualche mese uma grande campagna, “Sui binari della Giustizia” http://www.combonianosbne.org/PgAnteriores/Campanhas/fsm_vale_1_it.html , per esigere uma ripartizione piú giusta degli enormi guadagni della Compagnia Vale do Rio Doce e una ricaduta efficace sul nostro territorio e la nostra gente.
Porteremo questa campagna al Fórum Social Mundial, dove speriamo di incontrare molte alleanze. Intanto, stiamo costrendo una rete di istituzioni e gruppi che si stende su tutto il Paese e giá si rafforza con contatti internazionali.
Questo tipo di attivitá ci costringe ad agire a livelli distanti dalla nostra gente, viaggiare e incontrare altri gruppi e municipi, scrivere e documentare, cercare contatti lontani perché questa realtá nascosta sia conosciuta.
Ma cresce la nostalgia delle piccole relazioni quotidiane, della visita alla nostra gente: bere un caffé nelle loro case semplici, sapere di quello che succede alle nostre famiglie, celebrare la vita ogni volta che ci raccogliamo davanti a Dio...
É la sapienza popolare, che dobbiamo bere a piccoli sorsi per entrare nel cuore di questa gente, essere parte di loro, capirli e capirci a vicenda. É gente resistente, che non perde la speranza malgrado tutte le difficoltá che attraversa. Sono artisti della vita, capaci di celebrare e fare festa com uma creativitá che rinnova nel profondo.
Stare in mezzo a loro ci insegna a parlare la loro lingua, a capire che tipo di chiesa li puó realmente liberare e far crescere, a contemplare Dio nascosto nei piccoli gesti della gente. E tutto quello che realizzeremo non sará solo nostra iniziativa, ma uma scelta costruita mangiando riso e fagioli dalla stessa pentola!

Non é facile mantenere questo equilibrio tra la profezia e la sapienza; guardando a Gesú di Nazareth, ammiro quanto sia riuscito a farne uma sintesi di vita. Deciso, trainante, coraggioso nel denunciare senza mezze parole, aveva ben chiaro l'obiettivo della sua missione: liberare gli oppressi, restituire la vista a chi non riesce piú ad interpretare la vita, sciogliere le catene di ogni tipo di schiavitú.
Ma allo stesso tempo, era un uomo che sapeva fermarsi e stare con la gente. Conosceva i proverbi e le usanze popolari, faceva festa con loro, dialogava e faceva molte domande, per capire, per sintonizzarsi con il pensiero e le speranze del popolo. E si stupiva ancora davanti a un giglio del campo o una minuscola semente di senape.
Questo equilibrio é uma sfida per ciascuno di noi, nelle nostre famiglie, nel nostro ritmo di vita: decisi e trainanti, dobbiamo avere ben chiara qual é la direzione da seguire. Chi ci segue (figli, amici, compagni di cammino) deve sentire in noi la chiarezza, la convinzione e l'ostinazione di chi insegue il sogno di Dio! Allo stesso tempo, com' é importante dedicare tempo e ascolto a ciascuno, sapersi fermare, impregnarsi della vita degli altri, rallentare il passo per camminare tutti assieme...
Lo Spirito che animó il Nazareno ci aiuterá a vivere cosí, con profezia e sapienza!

venerdì 11 aprile 2008

Cresce la speranza


Una notizia di vita! (e un bel progetto politico, finalmente!)
Açailândia è l’unico municipio del Maranhão che è riuscito (in extremis) ad avvalersi del programma ‘Fome Zero’ del governo Lula, nel suo progetto specifico di ‘Compra Direta’ dei prodotti dell’agricoltura familiare.
Tra le tante sfide locali, due grandi contraddizioni qui sono la fame e miseria di molte famiglie e la difficoltà per i piccoli produttori di vendere i loro prodotti.
Come sempre, Açailândia è un microcosmo che rispecchia l’andamento del mondo: abbiamo cibo e abbiamo fame, quello che non funziona è la distribuzione equa dei prodotti, visto che si deve obbedire alle regole folli del mercato.
Qui da noi i piccoli produttori familiari non hanno mezzi per raccogliere, trasportare e commerciare i loro prodotti. E quando riescono, devono obbedire alle grandi rotte del commercio: le zucche prodotte nei nostri campi sono vendute a Fortaleza, a un migliaio di Km da qui! Sempre da qui partono per Rio de Janeiro gli autoarticolati che trasportano carne: 3000 buoi ogni settimana uccisi e trasportati lá.
Per la gente locale non resta che arrangiarsi e sopravvivere.
Il progetto di Compra Direta, finanziato dal governo federale, impegna il Municipio di Açailândia a comprare dai piccoli produttori familiari (240 famiglie coinvolte) frutta e verdura per l’ospedale locale, le scuole del Municipio e le famiglie piú povere, ciascuna delle quali è accompagnata dalle nostre associazioni e movimenti popolari.
Chiedeva un apostolo, stupito: “Signore, come possiamo sfamare tutta questa gente con solo duecento denari?”. C’era molta erba verde in quel luogo...

Per chi c´é posto?


“Non c’era posto per loro” (Lc 2,7)

Quando camminiamo per strada e ci incrociamo all’angolo sembriamo tutti uguali. In realtà, invisibile sulla fronte di ogni persona è stampato un attestato di sopravvivenza: quanto e come potrá resistere se si ammala?
Mi rendo conto di questo visitando la nostra gente in ospedale. Ad Açailândia non si accede a trattamenti specializzati; a volte, per ritardi e disorganizzazione, un malato ci mette troppo tempo ad essere trasferito… e cosí in questi ultimi due mesi sono giá morti due bambini e un giovane in conseguenza della dengue emorrágica.
C´è poi l’illusione: sicuramente nella capitale dello Stato mi cureranno bene. L’ospedale di Açailândia si alleggerisce e scarica laggiù i casi piú complicati; è sufficiente garantire un’ambulanza che corra fino a São Luís (90 Km piú a est) e ci liberiamo di un caso.

Con fr. Antonio siamo stati a trovare Lindalva e Lorinha, la cognata che l’accompagnava. Da una settimana sta aspettando nel corridoio. Una barella e una sedia di plastica, un corridoio pieno di corpi feriti, intubati, apatici, rannicchiati e stanchi. Gente che aspetta da quindici giorni il suo turno…
Intanto nel corridoio vanno e vengono le persone che hanno appuntamento per una visita: si ammassano alla porta, con una guardia che lascia entrare uno per uno.
C’è solo un medico di turno, è la prassi, e un centinaio di persone aspettano di parlargli.
Chi vive nel corridoio vede ogni giorno 4 o 5 persone entrare in ambulatorio e uscire morte.
Un pericolo reale è l’infezione ospedaliera: praticamente è piú sicuro attendere la cura in casa che in ospedale.
L’ospedale di São Luís è un deposito di copri che non funzionano piú. Non c´è posto, in Maranhão, per chi cerca la salute.

Uscendo dall’ospedale, un aereo del vicino aeroporto ci passa sulla testa.
Immagine istantanea di come stiamo vivendo a due velocitá: chi puó permettersi un piano di salute privato ha il futuro garantito. Per la grande maggioranza dei poveri, che vivono rasoterra, non resta che aspettare: chissà, forse un sottile soffio di vento li potrá di nuovo restituire al volo.

giovedì 13 marzo 2008

Per una ecologia della mente e del cuore (II)


Un cambiamento di epoca e cultura

Oggi é evidente l’affermazione di un modello di sviluppo aggressivo e irresponsabile. L’umanitá si trova ormai con le spalle al muro: con questo sistema distorto non ci sono vie d’uscita. "La nostra generazione assiste alla fine del disegno di sviluppo basato sul modello industriale – basato sul presupposto di natura come un pozzo senza fondo - e all'inizio di una civiltà basata sulla sostenibilità di tutte le forme di vita. La pietra miliare che separa queste due concezioni del mondo, senza dubbio, è la consapevolezza della crisi ecologica" (I poveri possiederanno la terra - Documento di vescovi e pastori del Brasile sull’ecologia, 2006). Due concezioni del mondo: se vogliamo davvero cominciare una ‘purificazione ecologica della mente e del cuore', dobbiamo assumere una nuova visione del mondo, in tutte le sfere di esistenza e relazione.

La risposta alla crisi ecologica non può essere semplicemente una corsa a tappar buchi, cucire le ferite della terra. Oggi abbiamo urgente bisogno di un movimento di conversione radicale, così come in varie epoche bibliche il Padre della Vita ci ha chiesto, con voce di supplica e di comando.

Rajendra Pachauri, presidente del Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), faceva riferimento a questa urgenza, nel dire: "Quello di cui abbiamo veramente bisogno è una nuova etica".
Gallazzi, nell'articolo 'Vangelo della Creazione', spiega così: "Si tratta di un punto di vista nuovo. Come possiamo scorgere gli uccelli del cielo, se i nostri occhi vedono solo raccolti abbondanti e granai stracolmi? Come prestare attenzione ai gigli del campo, se il nostro sguardo è catturato da abiti di lusso, segni di gloria e potere? Uccelli e fiori ci sfidano, quindi, a cambiare logica, mutare mentalità".

Da tempo (fino ad oggi con piccoli cambiamenti reali) si riflette sulla necessità di cambiare ideali e modelli di riferimento, utilizzando come esempio i valori olimpici tradizionali: "citius, altius, fortius!" (più veloce, più in alto, più forte!). Il cambiamento che occorre costruire è "più lento, più profondo, con piú tenerezza".
Il modello produttivo consumista da sempre annuncia il vangelo dell’efficienza e della produttività, caratteristiche tipiche degli adulti 'machos'. Valori come la creatività e la bellezza, al contrario, appartengono alla sfera più ampia di tutta l'umanità, senza limiti di età, genere, cultura o condizioni fisiche. Tutti possono apprezzare e generare bellezza, ognuno a modo suo.
Il motore del mondo neoliberista è la competizione. Ma 'cum-petere' originariamente significava ‘cercare insieme' e faceva appello a valori oggi considerati deboli: la solidarietà e la condivisione.

Così, la maggior parte delle religioni devono realizzare un cambiamento radicale di obiettivo, concentrando i propri sforzi e raccomandazioni non più sulla salvezza individuale, ma sull’impegno per una redenzione collettiva, salvezza di tutto! Si tratta di una rivoluzione copernicana del nostro inconscio religioso: riuscite ad immaginare il potenziale di una chiesa e di tutte le religioni assumendo questo cambio di paradigma?
Il gesto profetico del cacique indio che ha restituito la Bibbia a Giovanni Paolo II nella sua visita in Brasile denuncia proprio questo: tutti i popoli e la creazione intera esigono da noi cristiani una conversione profonda, capace di contagiare i modelli economici e sociali che si sono generati sulla base delle nostre costruzioni etico-religiose, lungo la storia.

Alcune linee guida essenziali per questa conversione?
Un cambiamento coraggioso dall’ individualismo alla pluralitá, dalla centralità dell'uomo alla circolarità delle relazioni con tutto il creato.
Nel libro della Genesi, in modo affascinante, Dio parla al plurale: "Facciamo l'essere umano".
E questo Dio plurale creò (crearono) l'uomo e la donna, per completarsi, perché nessuno da solo basta a se stesso. Fin dalla creazione è stato innestato in noi il principio di responsabilità reciproca. Pertanto, è tempo anche di un'alleanza delle religioni per prenderci cura della casa di tutti.
Come dicono le nostre sorelle chiese della riforma, è tempo di guardare al mondo come un’unica "Comunità di vita" chiamata a "sostenere la vita".


Per approfondire:

- “Confessare la fede in Cristo di fronte all’ingiustizia economica e alla distruzione ecologica”, Assemblea Generale delle Chiese Riformate, Accra 2004 – Inserto della rivista RIFORMA n. 45 - 19 novembre 2004
- Sandro Gallazzi, “Elefantina: outro Iahweh é possível”, RIBLA, n. 54, 2006
- Sandro Gallazzi, “O Evangelho da Criação, ensaio para a Campanha da Fraternidade” 2007
- “Os pobres possuirão a terra”, Documento dei vescovi e pastori evangelici del Brasile sull’ecologia, 2006

Per una “Ecologia della mente e del cuore” (I)


Nei post precedenti abbiamo cominciato a riflettere sul paradigma ecologico come una sfida per nuovi stili di missione.
Abbiamo distinto tre sfere di riflessione: la dimensione culturale, quella economica e la vita dei poveri. Non ha senso una proposta ecologica che non sia in costante interazione con questi tre aspetti.
In questi due nuovi post vogliamo approfondire la prima dimensione, quella culturale e religiosa.

“Non possiamo più affrontare una sfida ecologica isolandola dal suo contesto sociale, culturale e anche religioso. È in questione una diversa visione del mondo, che richiede conversione, cioé nuovi atteggiamenti e nuovi obiettivi negli occhi e nella pratica di ogni persona, chiesa e società”.

Qual è uno dei pericoli attuali? Come dicono i giovani della periferia di São Paulo: “L’arte che libera non può venire dalla mano che rende schiavi”. Forse capita anche a noi -chiese, missionari e laici- di promuovere vuoti discorsi ecologici mantenendo, nonostante ciò, atteggiamenti e modi di pensare totalmente anti-ecologici.


Una visione distorta della realtà

Qualsiasi prassi di oggi deriva da idee e valori sedimentati da molto tempo nella nostra cultura, religione e visione del mondo.
Fin dai primi tentativi di spiegare l’origine del mondo, il senso della vita e il ruolo dell’essere umano nella creazione, riconosciamo l’influenza di un pensiero “viziato”.
La maggioranza dei miti della creazione nacquero in epoche di conflitto sociale, come tentativi di giustificare gli squilibri della storia. Vivendo in tempo di conflitto, l’umanitá giudicava che esso fosse il riflesso di dinamiche violente nel cielo (conflitto tra divinitá). La cosmogonia di molte culture nacque proprio da questa interpretazione distorta iniziale. Il mondo è violento perché gli dei sono violenti, o quanto meno sanno “farsi rispettare”!

Le relazioni tra tutte le creature continuarono ad essere regolate da questo modello.
Cos’è che ha valore e si afferma? La persona e il sistema che riescano ad imporre un ordine violento, mettendo fine in questo modo ad ogni conflitto.
Si tratta della teologia e sociologia della forza, di relazioni dualiste e androcentriche, della competizione e della lotta per la sopravvivenza. La stessa natura, nelle sue regole più elementari di selezione naturale, conferma questo schema.

Anche diversi passaggi della storia della religione cristiana rafforzano questa lettura: si afferma un ‘Dio’ forte, controllore, Padre-Patriarca, ordinatore del cosmo, dal quale non si può fuggire (e che punisce e corregge con fermezza chi disobbedisce all’ordine stabilito).
Al servizio di questo ‘Dio’ esiste una casta privilegiata di funzionari scelti (sacerdoti, spesso appartenenti alla stessa etnia o allo stesso gruppo). Un sistema ben articolato organizza tutta la società secondo questa gerarchia divina immutabile: chi è nato per essere servo rimarrà servo, obbediente ad ogni regola indicata da ‘Dio’.
Consideriamo che il termine ‘gerarchia’ deriva dalla parola greca hieròs, che significa ‘santo’. Il sistema di potere e le relazioni di autorità e obbedienza si impongono automaticamente come derivate da ‘Dio’ e con la sua benedizione.

Nell’antico Israele questa costruzione culturale generò e legittimò il sistema dei tributi e del Tempio: l’ordine religioso e quello socio-economico si sovrapposero, impedendo qualsiasi tipo di alternativa e garantendo la sicurezza sociale attraverso l’imposizione.
Il biblista Sandro Gallazzi definisce l’essenza di questa religione come “Monolatria devastante”: non rimane il minimo spazio per la libertà e pluralità della vita.
Il Tempio e l’Impero camminavano mano nella mano fin dal tempo di Gesù, e questa santa alleanza si ripropone nel corso di tutta la storia.
Il sistema di culto e sacrifici a Gerusalemme promuoveva la concentrazione di ricchezza in nome di Dio: da qui il tesoro del Tempio, la raccolta di offerte per la purificazione rituale, le tasse che il popolo doveva pagare tanto alla dominazione politica straniera quanto ai suoi alleati della gerarchia sacerdotale.


Religione anti-ecologica?

E’ interessante osservare come questa struttura politico-economica, con una forte influenza religioso-culturale, ha avuto fin dall’inizio un impatto violento anche in ambito ecologico: il sistema di sacrifici permanenti prevedeva un saccheggio consistente delle risorse del popolo e della natura, come ben sottolineano diversi passaggi biblici. Tra questi un passo del libro di Neemia, capitolo 10:

Noi ci siamo imposti per legge di dare ogni anno il terzo di un siclo per il servizio della casa del nostro Dio: per i pani dell'offerta, per il sacrificio continuo, per l'olocausto perenne, per i sacrifici dei sabati, dei noviluni, delle feste, per le offerte sacre, per i sacrifici espiatori in favore di Israele e per ogni lavoro della casa del nostro Dio. Tirando a sorte, noi sacerdoti, leviti e popolo abbiamo deciso circa l'offerta della legna da portare alla casa del nostro Dio, secondo i nostri casati paterni, a tempi fissi, anno per anno, perché sia bruciata sull'altare del Signore nostro Dio, come sta scritto nella legge. Ci siamo impegnati a portare ogni anno nel tempio le primizie del nostro suolo e le primizie di ogni frutto di qualunque pianta, come anche i primogeniti dei nostri figli e del nostro bestiame, secondo quanto sta scritto nella legge, e i primi parti del nostro bestiame grosso e minuto, per presentarli nella casa del nostro Dio ai sacerdoti che prestano servizio nella casa del nostro Dio.

Il consumo annuale di legno era enorme, per consentire ogni giorno l’olocausto (termine che letteralmente significa 'bruciare tutto'). Il sistema di sacrificio era basato sul concetto di sangue e fuoco come elementi di espiazione e di purificazione: per ottenere perdono dal 'Dio' che mette ordine nella società occorreva lo spargimento di sangue delle vittime sacrificali, bruciando in seguito i loro corpi.

Gallazzi, in un articolo affascinante, espone una ricerca sul sincretismo nell'unico tempio di Iahweh fuori dal territorio di Israele: Elefantina, in Egitto (VIII-VI secolo prima di Cristo). Il culto javista è associato, in questo tempio, a un’altra divinitá, femminile.

Questo tempio non faceva concorrenza a quello di Gerusalemme: "È un culto di donne per la Regina del Cielo, culto non sacrificale, usando incenso, cibo e bevande; culto per l'abbondanza e la fertilità, culto popolare, che non richiede sacerdoti né templi, celebrato nella città e nelle aree rurali". "Memoria di una religiosità non escludente e di un javismo non ancora monoteista". Un altare senza sacrifici, simbolo evocativo di una società che rifiuta la violenza come mezzo di controllo sociale e ambientale. Inoltre, "la presenza di un culto ad una divinità femminile doveva aprire alle donne spazi sociali che erano impensabili a partire da un culto puramente monoteista e maschile".
Esperienze religiose di questo tipo, senza voler semplificare con soluzioni politeiste, testimoniano che nel dialogo con altre culture, religioni e popoli "un altro Iahweh è possibile”!

lunedì 10 marzo 2008

Resurrezione


Non conosco Dio e non oso definire chi possa essere.
Ma ci sono tre ‘movimenti’ di Dio nel Vangelo che mi conquistano e che ho scelto come punti di riferimento anche per la mia vita.
- Il Dio che Gesú di Nazareth è venuto a svelare è il Dio dell'incarnazione. Impregnarsi di vita, immergersi nella storia, nuotare fondo dentro l’esistenza degli altri e scegliere le storie dei piú poveri e esclusi. È un principio che anche per me ha molto senso.
- Questo stesso Dio vive una passione di amore e sofferenza. Ho giá detto quanto questo mi appassioni.
- Infine, Gesú di Nazareth è ressuscitato. In parole piú semplici potremmo dire: la sua vita ha avuto senso fino in fondo. Proviamo a capire meglio cos’è la resurrezione… (qui nessuno vuole fare teologia: è la povera esperienza di un missionario che si interroga sul senso di quello che sta dicendo alla sua gente!)

Una cosa è certa: non esiste resurrezione senza passione. Cosí come non riceviamo gratis la vita, ma occorre passione e molta cura perché la vita sbocci, anche la resurrezione, vita in pienezza, è frutto di passione.
Quel che piú mi affascina dei racconti di resurrezione è la prova che Gesú usa per mostrare che è tornato a vivere: non chiama in causa migliaia di angeli, né scherza con lampi di luce e di gloria, né si ascolta una voce dall’alto che dice “Questo è mio figlio, oggi l’ho resuscitato”.
No: semplicemente Gesú mostra le mani e i piedi, forati e induriti dal cammino, dagli incontri, dal lavoro. Si resuscita nelle mani e nei piedi: se chiediamo un’interpretazione di questo passaggio ad un lavoratore dei campi nordestino, qui in Brasile, avremo la migliore delle esegesi!

Non c’è resurrezione senza passione; per me significa che resuscita ogni persona che ha lottato, che ha cercato il senso della vita, che ha vissuto con un obiettivo. La resurrezione è la conferma finale che è valsa la pena, anche se nel cuore della vita molte volte non vedevamo vie d’uscita, non trovavamo motivi di speranza.
La nostra sete di vita, sete di Dio, ‘scava dei pozzi’ durante questa esistenza. Nella vita senza fine questi pozzi saranno colmati, ognuno nella sua misura: chi avrá lottato e cercato riceverá in proporzione alla sua sete.
“Una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sará posta in grembo” (Lc 6,38).
Qual è la misura del tuo grembo? Quale la profondità del pozzo che la tua sete di vita sta scavando?

Ci sono persone che saranno ricordate eternamente, per la loro sete di vita: sono testimoni (‘martiri’) della resurrezione. Irmã Dorothy Stang, per esempio, è stata uccisa nel pieno della sua sete, lotta per la terra e la dignità della gente del Pará. Ancora oggi, i suoi compagni di cammino si incontrano tutte le settimane e chiudono le loro riunioni con un momento di spiritualitá irresistibile: dopo l’assassinio della irmã, hanno raccolto in un vaso la terra su cui si è sparso il suo sangue. In cerchio, toccando questo vaso, ogni volta tutti gridano insieme “Dorothy vive! Sempre, sempre, sempre!”
La sete di Dorothy ha ancora senso e continua nella lotta dei suoi amici.

Ci sono altre persone, peró, di cui nessuno si ricorda: poveri, hanno sempre vissuto ai margini e lottato per sopravvivere e garantire vita ai figli e amici. Anche loro resuscitano, perché la sete di vita e di senso riceve una misura di consolazione e pace nelle braccia del Padre, che ama soprattutto i poveri. Anche la vita dei dimenticati ha senso, tra le braccia di Dio.

In qualche modo, quindi, stiamo fin d’ora decidendo se e quanto risorgere.
L’intensitá della vita e la profondità delle risposte che riceveremo dipende dalla passione e dalle domande che scaldano oggi la nostra vita.
Per questo Gesú dice: “Tutti quelli che credono in me non moriranno mai”.
Scegli, dunque, la vita!

mercoledì 20 febbraio 2008

Passione di Dio e nostra


La passione non é solo un momento particolare dell’anno, una settimana santa che miracolosamente si risolve all’arrivo della Pasqua. La passione è un atteggiamento del cuore.

La pagina più bella del Vangelo che parla di passione è il racconto della donna che entra, con tremore e coraggio, nella sala di uomini seduti a tavola e rompe il vaso con essenza profumata, per ungere Gesù di Nazareth.

La passione di questa donna è più forte di qualsiasi regola, rompe i preconcetti e la paura, non si interessa del giudizio degli altri. Non calcola le spese e non riserva nulla per sé.

Questa icona é simbolo del miracolo più bello della vita: quando un bambino nasce, la donna ‘si rompe dentro’ per donare la luce a una nuova persona.
Frutto della passione-amore, il miracolo della vita esige passione-sofferenza per realizzarsi.

Passione di amore e di sofferenza: non si può distinguere. La creazione geme e soffre le doglie di un parto, perché spunti una vita nuova. Anche Dio soffre ogni giorno, assumendo lo sforzo dell’umanità per difendere la vita.

Donatella, amica che vive da anni a Betlemme nel cuore della violenza imposta al popolo Palestinese, sente questa sofferenza sulla pelle.
A Betlemme Dio continua a soffrire i dolori del parto, tentando di rinascere “nella tristezza di una notte scura, nelle lacrime dei bambini, nelle finestre chiuse per paura, nella pace che non arriva, nelle vittime di ieri, di oggi e di domani”.

Donatella é una delle ‘levatrici’ di quella terra (in Brasile ‘parteiras’): condivide la passione di Dio per far nascere la vita ogni giorno. Per lei, passione significa non dimenticare: “voglio mantenere gli occhi spalancati su questo mondo cosí umano, fatto di penombra e di notti, di amore e di conflitti, di grida e di sorrisi, di lacrime e di dolcezza”.

Essere ‘parteiros’ della vita che ancora non è nata: è questa la nostra passione missionaria! La vita non ci arriva gratis… È un dono di Dio, certo, ma Lui stesso soffre e lotta perché la vita sbocci, sia protetta e si realizzi in pienezza.

Molte volte, nelle contraddizioni violente di questo Brasile, sento il peso della vita che fatica a nascere. Ci sono giorni più sereni, altri che sembrano vicoli ciechi… L’importante secondo me, come dice Donatella, è non permettersi di dimenticare. Caricare permanentemente con noi le attese e le sofferenze di molti, ospitare dentro la nostra esistenza l’esistenza di molti altri. Smettere di vivere da soli.

Quando celebriamo la passione di Dio, facendo memoria nella Messa, ricordiamo sempre l’Agnello di Dio che ‘toglie’ il peccato del mondo. Ma l’espressione esatta sarebbe “Agnello di Dio, che ti fai carico del peccato del mondo…”
La passione di Dio è così: farsi carico delle speranze e del dolore di un mondo che fatica a nascere veramente.

Questa passione non si risolve con la bacchetta magica del giorno di Pasqua. Al contrario, il nostro tempo è come un sabato permanente di attesa, una lunga veglia che si pone tra le ferite mortali del venerdí santo e le prime luci del Nuovo Giorno. Tra l’amore e la sofferenza, tra la sconfitta e la resurrezione.
Questa ricerca, equilibrio instabile con Dio, mi sfida… e mi appassiona!

domenica 10 febbraio 2008

Sette giorni dopo sette anni

Torno a São Paulo per una visita molto breve: in sette giorni cerco di recuperare quello che hanno vissuto molti amici negli ultimi sette anni che ci hanno tenuti distanti.
Prima di tutto cerco i ‘miei’ adolescenti, quelli che accompagnavo passo passo entrando e uscendo dal carcere minorile, dalla favela, da famiglie disastrate che –chissá come- riuscivano comunque a resistere.
E cercando loro cerco me stesso, il senso di tutto il sudore speso in quegli anni frenetici… Cerco un po’ di speranza, qualche segnale di vita, qualcosa che mi dica: “ha senso, continuate cosí”.
Cerco il senso di proporre la chiesa oggi, il modo di vivere il Vangelo, i luoghi dove Dio abita.

Ma non ho il coraggio, in certi casi, di cercare fino in fondo. I primi amici che tento di rintracciare non si trovano, appaiono solo alcuni, mi raccontano degli altri: tornati in carcere... oppure uccisi dalla polizia o dalle gangues locali.
Rintraccio Fabiana per consolarla: hanno seviziato e ucciso suo marito, papá del piccolo Kauan. Deve averla fatta grossa al Primeiro Comando da Capital, la fortissima mafia locale. Loro non perdonano, e l´esecuzione deve essere esemplare, cosí che tutti imparino.
Mi dicono che in questi ultimi anni la situazione é piú calma: si muore lentamente, perché il PCC non lascia che gli adolescenti si uccidano tra loro in favela (niente confusione quando facciamo affari!). É piú comodo che muoiano lentamente, bruciandosi il cervello con il nuovo e economico modello di droga in circolazione: si chiama lança-perfume, é una pasticca che evapora nell´aria, la metti in una lattina vuota e la respiri, arriva dritta ai neuroni.
Il traffico é sempre piú in mano ai bambini: é comodo e sicuro, la polizia non puó fargli molto.
É urgente, da decenni é urgente investire nelle periferie con una politica pubblica seria: lavoro, educazione di qualitá, salute...
Alcune famiglie, che conosco da dieci anni, non sono cambiate per niente. Dona Ana ora ha 14 figli (altri sono morti), Fernanda e Cidinha sono partite per vivere con trafficanti 'pesanti', due piccoli sono in carcere... ma piú di tutti mi impressiona Fernando: in un momento delicato della famiglia aveva tentato di assumere le redini e accompagnare i fratelli, ma presto é scoppiato e, dentro il conflitto persistente di questa vita, non ce l'ha piú fatta. Si é dato fuoco, davanti alla sua compagna... e poi é morto lentamente, in quindici giorni di agonia in ospedale.
Il Cantico dei Cantici dice che l'amore é piú forte della morte, ma in queste strade molti giovani hanno perso il ricordo dell'amore. A dar senso alla vita, allora, resta solo il potere, che é il secondo alimento per chi é in cerca di senso. Nei nostri quartieri si riconosce il potere di chi controlla, guadagna in fretta o uccide nella maniera piú barbara.

Ringrazio Eduardo: da piccolo ha visto morire il fratello (e una pallottola tra le tante aveva raggiunto anche lui, alla mascella)... ma dopo questi anni ha rialzato la testa, lavora, si é innamorato, ha comprato una moto...
Ringrazio André: ancora crede nei giovani e si é immerso in mille attivitá. Era adolescente, dice che ha imparato da noi...
Ringrazio dona Neta: con un marito alcolizzato, un figlio in carcere per droga e due piccoli in pericolo, non ha mai smesso di resistere... e ancora vive!

La Parola di questi giorni invita a 'mettere al centro' chi ha la mano inaridita, e per questo non puó accogliere, non riesce a lavorare, non si sente degno nemmeno di ricevere.
La nostra é una vita missionaria che riesce appena a camminare attraverso queste storie. Ha senso solo se mettiamo al centro questa gente. Davanti a noi, davanti alla chiesa, come sfida, grido, denuncia, spavento.
La stessa Parola di questi giorni smonta il sabato e i farisei... accusa una certa chiesa ripiegata sulle emozioni e sicura della sua dottrina. Abbiamo un bisogno incredibile di persone che facciano respirare la nostra chiesa e tornino a raccontare il vangelo nell'incertezza dei piccoli.
Non ci interessa difendere spazi, diritti acquisiti, tradizioni o la nostra autoritá. Non ci interessa affermare chi ha piú ragione, chi conosce la veritá, chi si salverá dopo...
Ci interessa capire cosa voleva dire il Padre con la vita di quel Gesú che camminava in Galilea... e cercarlo di nuovo oggi, risorto nelle persone che non si scoraggiano, che seminano la vita con ostinazione, che si fanno mille domande e le incarnano ritentando ogni giorno.
Ci interessa stringere alleanze con persone che credono cosí... perché quello che ci uccide oggi é l'isolamento, la solitudine che scoraggia, il 'mondo' che va da un'altra parte e la corrente che é sempre piú forte, difficile da risalire...
“Vi ho chiamati amici”. Tornando a São Paulo ho cercato e ritrovato questi amici, che insieme credono, lottano, vivono. Alcuni, dalle nostre parti, la chiamano 'cospirazione della speranza'.

sabato 9 febbraio 2008

Cammini aperti e da aprire

Cammini aperti

Graças a Deus, come dicono sempre qui, ci sono le nostre comunitá! Gli anni di lavoro pastorale in questa regione hanno portato frutti vivi: settimana scorsa abbiamo realizzato la nostra assemblea annuale delle comunitá cristiane che accompagnamo (sono 27, varie in cittá, altre in un raggio di 50-100 km).
É stato un momento di grande respiro! Protagonista é la gente, gente che costruisce comunitá, celebra e promuove i diritti e i doveri per tutto l'anno, malgrado noi li visitiamo solo ogni tanto...
Dall'assemblea sono emerse le prioritá per il nostro 2008: cittadinanza e partecipazione, promozione dell'ambiente, piccole comunitá di base e visita alle famiglie, mezzi di comunicazione. Sono cammini aperti che vengono da lontano e che ci aiutano a non perdere la strada. Che Dio ci accompagni!

Cammini da aprire

Allo stesso tempo, come missionari, dobbiamo stare con queste persone aprendo cammini e visioni nuove. E portando la loro voce fuori dagli spazi ristretti in cui sono nascoste.
Per questo ci stiamo giá muovendo verso il prossimo Forum Sociale Mondiale, che si realizzará a Belém, in Pará, a gennaio 2009.
Questo scenario internazionale sará l'occasione perché la nostra gente 'respiri il mondo' e allarghi i suoi orizzonti. Ma anche un'opportunitá per lanciare denunce e azioni che recuperino la dignitá dell'ambiente e dei lavoratori delle nostre zone.
Stiamo lavorando molto su questo, in una prossima lettera racconteró.
Mi colpisce una coincidenza significativa: a Belém, quasi cent'anni fa, é morto un santo missionario, lebbroso tra i lebbrosi. Ed era del mio paese! Padre Daniele da Samarate, compagno di cammino dal giorno dei miei primi voti... mi aspettava qui e lo ritrovo con sorpresa: anche a lui chiediamo di indicarci la strada!
Che bella occasione, sarebbe, perché anche il mio paese e la mia parrocchia si spostassero all'incontro con il mondo nella terra di padre Daniele, dopo tanti anni...
Il Forum Mondiale come spazio di incontro, progetto sempre in costruzione per un mondo piú umano, occasione di gemellaggi, esperienze di vita e di chiesa che si incontrano e si alleano. La missione, oggi, passa anche attraverso questi spazi. Facciamocene carico tutti insieme!

Come creature

Stare dentro la realtá, qui da noi, significa assumere il dolore della Creazione.
Per i missionari é sempre stato decisivo quel versetto dell'Esodo (3,7) in cui il Signore della Storia dice “Ho udito il grido del mio popolo e sono sceso a liberarlo”. Le nostre scelte spesso si orientano a partire da questo clamore, a cui proviamo a rispondere immergendoci (scendere) e partecipando con la gente al cammino di liberazione.
Ma oggi, tanto forte quanto il grido del popolo, ci ferisce il silenzio assordante della vita che giá non c'é piú. Contesti ambientali completamente distrutti, equilibri spezzati, deserti di monoculture al posto di ecosistemi ben integrati con il lavoro dei piccoli produttori, progetti minerari che stanno seccando le viscere della nostra terra e della gente che la abita...
In una catena, l'anello piú debole é il primo ad essere schiacciato; quando la vittima é senza voce, tutto risulta meno grave e appare meno violento.
La Creazione soffre qusta discriminazione senza poter alzare la voce (e quando lo fa é tutto d'improvviso, nei disastri naturali).
In questo senso, occorre completare il versetto dell'Esodo: “Ho ascoltato un silenzio preoccupante e innaturale. Per questo, sono sceso a restituire voce e vita a questa terra ferita”.

Un vescovo, il digiuno e la morte

Una delle persone che sta riuscendo a scendere, ascoltare e amplificare la voce di queste ferite é dom Luís Flávio Cappio, vescovo francescano in Bahia. Ormai da 11 giorni sta digiunando e pregando in riva al rio São Francisco, che il governo brasiliano vuole letteralmente spostare, per risolvere il grave problema della secca nelle regioni del nordest del Brasile.
Senza entrare in dettagli, si tratta di un progetto faraonico che foraggia grandi imprese di costruzione e stimolerebbe la produzione agricola latifondiaria. Esistono da anni alternative documentate, con impatti e costi molto minori, rivolte ai piccoli produttori locali.
É in loro nome, quasi dando voce anche al fiume, che dom Luís sta digiunando. Dice che di fronte a questi colossi organizzati anche il Vangelo suggerisce come unica soluzione il digiuno e la preghiera. Ed é disposto a continuare fino alla morte (tanto che qui giá in molti parlano di martirio). Il gesto di questo vescovo sta provocando molte reazioni di solidarietá e iniziative di protesta locali, aggregando forze e risvegliando coscienze.
“La Creazione stessa geme e soffre le doglie di un parto, aspettando la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8). Dom Luís si sta rivelando figlio di Dio e fratello universale di tutte le creature, facendosi carico del loro dolore. E ci invita a fare lo stesso.

In questi stessi giorni, una bimba é morta di denutrizione, in una delle regioni della nostra parrocchia. Il digiuno é una scelta per la vita; Maria Vitória é invece espressione di una sconfitta.
É fallimento di tutti: la comunitá che non ha saputo accompagnare il caso, noi che ci siamo mossi troppo tardi, il Consiglio Tutelare dei diritti dei bambini che si é omesso, l'ospedale che l'ha scaricata irresponsabilmente.
Perché il sogno di Dio si spezza cosí facilmente? Sono troppo forti, ancora, le logiche marce di interesse personale, accumulazione, irresponsabilità, impunitá. Viene voglia di gridare, ci sentiamo impotenti e arrabbiati, non capiamo bene come sia meglio muoverci.
Tornano le domande di tutti i giorni: da che parte andare? Stiamo facendo le scelte giuste? Cosa vuol dire essere missionari qui?
Non ci sono risposte, bisogna tenere occhi e orecchie ben aperti. La Parola e la storia, un grande ascolto e... l'aiuto di Dio!

Un 'altro' Natale

Sta arrivando un altro Natale e torno a scrivervi dal Brasile, ricordandomi dei Natali vissuti a São Paulo e tanto diversi dal nostro clima invernale. Qui fa molto caldo, sta arrivando la stagione delle piogge (con grande ritardo)... eppure anche qui Babbo Natale ha il giubbotto rosso e il cappello di lana! Poteri del consumo globale e di questi idoli che lo rappresentano...

Condivido qualche povera riflessione, che mi aiuta a fare il punto del cammino fin qui (5 mesi).
Mi colpisce, in questo tempo di Avvento, la forza straordinaria del sogno che Dio ci mette davanti.
I testi di Isaia e del Vangelo hanno un respiro e una passione 'esuberanti', utopici, esagerati. Spalancano dimensioni che non osiamo immaginare, provocano alla speranza: tutti i popoli correndo verso lo stesso monte di Dio, spade che si trasformano in vomeri, lance in aratri. Pace universale e riconciliazione dei nemici (il lupo e l'agnello, il bimbo e il serpente). Il banchetto di Dio che é festa soprattutto per gli esclusi, accoglienza e vita per zoppi, ciechi, muti...
Eppure, leggendo da qui, mi accorgo che in questi stessi testi non si nasconde il dolore, il peso della realtá: il violento e l'empio ancora dominano la scena. Gerusalemme é macchiata di sangue.
La Bibbia non é ingenua e descrive bene la storia anche di oggi.
Racconta di un germoglio che spunterá... ma qui sentiamo il dolore della natura e della vita spezzata. Racconta di un 'resto', una piccola minoranza che continua a sperare... e anche qui crediamo fermamente in questa speranza: é il motivo che ci resta per continuare a vivere!
Il nostro sperare non é solo aspettare passivo. Un canto molto bello del tempo della dittatura dice “Quem sabe faz a hora, não espera acontecer” (Chi ha capito anticipa le cose, non aspetta che succedano da sole).

Capire

Giá: capire, anticipare le cose. Ma come?! É la domanda che ci assilla ogni giorno: da che parte andare? Stiamo facendo le scelte giuste?
Stando qui cominciamo a sentire –come cappa opprimente- il peso di una realtà che stenta a cambiare. L'unica risposta é... assumere la sfida, fare di questa passione e preoccupazione il centro della nostra vita. Farci carico della realtá di qui, lasciare che occupi interamente e unicamente in nostro cuore.
“Avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo” significa non passare indifferenti, giorno per giorno, al silenzioso grido di agonia di questa realtà ambientale e sociale, al degrado progressivo dei valori che vengono consumati. E starci dentro con tutte le forze, come dice la Parola e come richiama il maestro Dossetti (per me il senso della vita consacrata si riassume cosí).

giovedì 7 febbraio 2008

Credi nei germogli?


Si chiamava Maria Vitória. Abitava nell'assentamento Nova Vitória.
Ma la sua morte denuncia la sconfitta di tutti e di ciascuno.
Era una bimba denutrita, figlia di una famiglia troppo complicata: la mamma con problemi mentali, il papá senza lavoro e spesso in compagnia dell’alcool, un bel numero di fratelli piú grandi. Ma dopo molte sofferenze, la sua situazione sembrava ben incamminata: finalmente una famiglia adottiva che aveva i mezzi per curarla e mantenerla.
L'ospedale l'aveva dimessa da due settimane, dicendo che era fuori pericolo... ora occorreva solo continuare con l'idratazione e l'alimentazione.
Invece venerdí é morta. Il consiglio tutelare non ha avvisato nessuno. Siamo venuti a saperlo per caso e siamo corsi al cimitero: l'avevano appena sepolta (il becchino, il papá adottivo e due consiglieri tutelari).
In mezzo a un bel po' di altre tombe di bambini, molte ormai coperte dall'erba alta piú di un metro... per arrivare fin lá sicuramente ne abbiamo calpestate alcune.
Sconfitta della comunitá locale. Sconfitta degli agenti di salute dell'assentamento; del consiglio tutelare; dell´ospedale; di questo municipio che é il secondo piú ricco del Maranhão ma che ancora vede morire bambini denutriti.
Questa storia non passa solo nel rimorso, sia chiaro. Vogliamo andarci fino in fondo. Ma intanto Maria Vitória ha perso la vita.
Il Vangelo di oggi parlava di un germoglio che spunterá... e stamattina pregavo sull'urgenza di vedere germogli spuntare, per capire dove e come coltivare... in qs terra violentata e ferita. Invece un altro germoglio spezzato... non so se é piú forte la rabbia o la delusione.
Ma non siamo noi quelli da consolare... e forse nemmeno questa gente, che ormai alla morte si é abituata.

E se somos Severinos
iguais em tudo na vida,
morremos de morte igual,
mesma morte severina:
que é a morte de que se morre
de velhice antes dos trinta,
de emboscada antes dos vinte
de fome um pouco por dia
(de fraqueza e de doença
é que a morte severina
ataca em qualquer idade,
e até gente não nascida).

lunedì 4 febbraio 2008

Le sofferenze del momento presente

Spesso, stando qui, comincio a sentire –come una cappa opprimente- il peso di una realtà che stenta a cambiare.
Avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo significa non passare indifferenti, giorno per giorno, al silenzioso grido di agonia di questa realtà ambientale e sociale, al degrado progressivo dei valori che vengono consumati.
Ci sono due corpi di cui ci dobbiamo prendere cura. In Italia mi sono concentrato molto sulla cura del corpo (=vita intera) di ciascuna persona. Qui mi è affidato il corpo delle comunitá e, ancor piú in generale, il corpo di questo sistema malato.
Nei testi apocalittici del Vangelo (cf. Lc 21,8-28) c’è gente che non vuole vedere questa sofferenza e si ferma alle ‘belle pietre e offerte votive’. Ci sono persone che si rendono conto, ma accolgono con paura e impotenza i segni di morte (fame, terremoti, disordine cosmico). C’è, infine, la speranza del Vangelo, che dice “la vostra liberazione è vicina”, “non sará la fine”, “con la vostra resistenza (hypomoné) salverete le vostre vite”.
Cos’è, questa speranza? È partecipazione (immersione) alla sofferenza di tutto il creato: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio”.
Comblin dice: “Sperare non é solo desiderare. E’ obbedire (anticipare profeticamente) al cammino che Dio ci mostra”. Stare dentro questa realtà, facendosi carico (hypomoné) delle sue attese.
Quando faremo questo, ci riveleremo per quello che siamo: Figli di Dio, a sua immagine e somiglianza, appassionati come Lui e completamente dediti, come Lui, alla attesa creativa del Regno (“il Padre mio lavora e anch’io lavoro” Gv 5,17).

“Giustizia e Pace si abbracceranno”. Le immagino come due sorelle che si sono perse, in questa coltre di violenza e degrado. E si cercano incessantemente, e cercandosi coinvolgono altri ‘cercatori’, per aprire strade nuove, sperimentare cammini inediti. Prima o poi si vedranno, a distanza, e la creazione tutte intera parteciperá alla corsa e all’abbraccio preparato da tempo.
Boff prova a spiegarlo, in termini piú concreti, che mi piacciono:
“Quando il pericolo è grande, è grande anche la possibilitá di salvarsi. Quando, tra pochi anni, arriveremo al cuore della crisi e tutto sará in gioco, sará valida la massima della sapienza ancestrale e dei primi cristiani: “In caso di estrema necessitá, tutto diventa comune”. Capitali, saperi e averi saranno condivisi tra tutti, per poter salvare tutti. E ci salveremo, con la terra.

Quale povertá?

Chiamati a rispondere alle povertá della gente.
Mi accorgo un po´ di piú che le povertá sono molto diverse...

Lá in Italia sentivo e sento ancora forte la sfida di uma societá che si sta sgretolando, che ha perso molti punti di riferimento, che si é consumata, in tutti i sensi.
Sento che qs sfida la devo raccogliere anche da qui, in qualche modo.

Laura scrive dall´Angola distinguendo la povertá violenta e caotica delle periferie di Luanda e la povertá 'ordinata' e dignitosa delle zone interne dove ha lavorato. Le contraddizioni di una baraccopoli presentano sfide molto diverse dall´isolamento e dalla mancanza di risorse della gente nei campi.

E qui? Quali povertá ci interpellano?
Ho trovato una cittá piuttosto ricca (é la seconda cittá piú ricca del Maranhão, per via delle risorse minerarie, della terra e degli allevamenti; anche qui, ovviamente, la media é sulla base del grande contrasto ricchissimi\miseri). Mi ha fatto impressione l´appiattimento culturale: qui se entri in un supermercato non capisci piú se sei in Brasile, Italia o chissá dove... Dieci anni fa non mi sembra fosse cosí facile trovare di tutto in Brasile... qui c´é il Valpolicella, quasi tutti hanno il cellulare e la cittá é piena di internet-café (e geograficamente siamo abbastanza isolati rispetto ai grandi centri!).
Davvero in poco tempo tutto rischia di diventare uguale.

E allora? Quali povertá?
Mi sembra, a prima vista, di vederne tre nelle quali siamo chiamati ad impegnarci molto:
- povertá religiosa:
qui tutti parlano di Jesus (c´é anche una bevanda e una compagnia di trasporti che si chiama Jesus!), molte chiese diverse ed alienate; la maggior parte della chiesa cattolica che ha fatto l´opzione carismatica (nel migliore dei casi si ottengono parrocchie come quelle che abbiamo in Italia, né piú né meno... nel peggiore, di nuovo, alienazione totale). Tenere viva una chiesa che lotta e promuove la vita, che tesse l´impegno per la giustizia nel cammino ordinario delle comunitá, recuperare i valori della teologia della liberazione: ecco il nostro compito
- povertá di cittadinanza
figli di una politica di corruzione e clientelismo, da decenni... é ovvio che la gente del Maranhão ancora oggi cerchi solo alleanze e favori. La partecipazione é un valore distante, cosí come la fiducia in una politica sana e la difesa dei diritti fondamentali. Su questo piano possiamo esplorare orizzonti nuovi di impegno: in che modo una comunitá cristiana si puó rendere presente nel territorio con proposte attive di cittadinanza, organizzazione, pressione consapevole sui poteri pubblici e vigilanza?
- povertá ambientale
ci sono tanti problemi, qui, e tante vittime. Ma una vittima silenziosa, che prenderá la parola tutta in una volta, quando non ci sará piú nulla da fare, é l´ambiente. Per questo la Provincia dei comboniani ci chiede di concentrarci su questa sfida: la difesa dell´ambiente come sfida urgente e prioritá per noi.

sabato 2 febbraio 2008

Impressioni

Impressioni…

Açailândia é la terra che mi ha accolto, il 19 luglio.
C’è voluto un bel po’, a dire il vero… 24 ore tutte intere di aereo per arrivare a São Luís, e altre 10 di treno attraversando tutto il Maranhão. Sembravano terre tutte uguali, quelle attraversate: pascoli e terra bruciata.
‘Disorientato’, è la parola giusta per il mio arrivo, immerso in una terra uguale a tante altre, nascosto nel cuore di questo popolo tutto da riscoprire, molto diverso da São Paulo.

Açailândia deriva da Açaí, un frutto gustoso di una palma che… qui giá non c’è piú. Biglietto da visita scaduto, per una cittá che ha solo 26 anni di vita (io piú vecchio di lei!).
In questi pochi anni la foresta è stata tagliata, fatta a pezzi e rivenduta. Dieci anni fa c’erano 60 segherie tutte nella stessa cittá, ora stanno chiudendo l´ultima.

Tanti camion di legna, carbone o minerale attraversano la cittá, di giorno e di notte. Li accoglie, all’entrata, un 'monumento' che è un inno al saccheggio: un grande tronco di foresta nativa, innalzato come un dolmen a ricordare che qui la gente ha sempre vissuto di disboscamento.

Ora molti si sono buttati nell’allevamento. Siamo la zona con maggior produzione di carne di tutto il nordest del Brasile. Proprio ieri si discuteva dell’equilibrio strano che qui occorre mantenere tra diritti dell’uomo e diritti delle vacche (o meglio: dei loro padroni).

Ricordo al GIM in Italia Matteo e Marisa, tornando dal loro stage in Belgio, raccontavano del porto di Rotterdam, il piú grande d’Europa.
Ora mi trovo dall’altra parte dell’imbuto: Carajás. Una delle terre piú ricche di minerali del Brasile, da qui prendono tutto, caricano sulla ‘strada di ferro’ fino a São Luís e esportano in tutto il mondo.
Ma il conflitto resta qui.

I comboniani questa volta hanno capito bene qual era il posto giusto, e si sono stabiliti esattamente nel cuore di un conflitto che esprime bene le contraddizioni del consumo di oggi.
Sono qui da vent´anni e hanno lavorato molto bene con le comunitá cristiane.
Trovo una chiesa molto ben organizzata, dove i laici sono attivi e sono stati preparati molto bene. Grazie a Dio, altrimenti come avere cura di tutta questa gente, piú di sessantamila nella nostra parrocchia (senza contare la terra ed il suo grido, direbbe la Bibbia)?

Ma trovo anche persone ‘consumate’ dal sogno del consumo: lo spirito di lotta, impegno e partecipazione di alcuni anni fa si è molto affievolito. La religione per molti si riduce a consolazione o fuga; alla dottrina sociale della chiesa si sovrappongono gli ‘Osanna’, piú facili da cantare e meno impegnativi per gli stessi preti di qui… (salvo eccezioni a cui subito mi sono stretto!)

Devo reimparare la lingua semplice della gente, ma insieme dobbiamo ‘portarci oltre’…
Nei giorni della mia partenza era il libro dell’Esodo a condurre la liturgia: lo ritrovo qui, scritto per terra, con tracce confuse da identificare insieme.

Sono impressioni gettate in questo mese, in risposta a chi mi chiede di qui.
Piú avanti racconteró meglio, ora è soprattutto per camminare in comunione, pregare gli uni per gli altri.

Ci accompagna Gesú di Nazareth e la sua Parola, che qui sento viva e nuova!

Un forte abbraccio,
dário

venerdì 1 febbraio 2008

i primi passi...

19 de julho 2007
cheguei!

Altre dieci ore di treno per entrare nel cuore del Maranhão. Arrivi e l´orizzonte desmatado con poche piante si stende tutto attorno, molte bruciate per lasciare spazio ai pascoli, e parecchie pinatagioni di eucalipto per le carvoarias...
ti senti un po´... nel mezzo di niente!
La prima reazione é stata: ma dove sono finito? E perché fin qui?
Tornano le domande sul senso dell´andare tanto lontano, sul ruolo di noi missionari...
Sento forte la Parola di oggi, che intendo come un vero e proprio invio, una Parola detta a me.

Mosé che si mette nei panni degli ebrei: “Mi chiederanno: e chi é che ti manda? Come si chiama?”. E Dio che gli risponde IO SONO ti manda... e il mio nome é il Dio dei vostri padri, il Dio della storia.
E il Vangelo che dice: venite a me voi tutti affaticati e oppressi, portiamo insieme il giogo.
Di che giogo si tratta? Osea lo spiega: un giogo che Dio pone al suo popolo per arare secondo giustizia e piantare secondo amore, per cercar il Signore, perché lui spargerá i frutti.
Ecco, questa Parola davvero mi invia e sento realmente che sono chiamato qui, per cercare, per imparare, per lavorare sodo con questa gente e aprire un solco per la giustizia!

Immerso in questa terra lontana e profondamente dentro allo stato del Maranhão, capisco la relativitá di questo luogo, uguale a tanti, e proprio per questo importante per me, come missionario. Entrare nel cuore della gente, nella vita, speranza, gioie e preoccupazioni di tanti, coindividendo l´esperienza di alcuni, i 'pochi' che riusciró ad incontrare.

Il viaggio di treno mi fa conoscere subito la violenza che poi incontreró all´arrivo: al nostro fianco, sui binari, sono parcheggiati almeno 300 vagoni carichi di ferro, pronto per il trasporto via nave verso gli USA, il Giappone o la Cina.
23mil tonnellate, calcolo, solo in quel giorno. Dicono che manca poco perché l´industria estrattiva arrivi alla soglia di 2 miliardi di tonnellate di ferro prelevato, strappato dalle viscere della nostra terra ed esportato.
Sulle condizioni di qs processo credo che impareró molto a breve.